Le mille e una notte. Vol. 2: Desolato (M. Gomes, POR-FRA-GER 2015)
La seconda parte della trilogia di Arabian Nights del portoghese Miguel Gomes (Lisbona 1972) potrebbe non avere ottenuto un particolare successo di botteghino, almeno a giudicare dai poco più di venti spettatori che di sabato sera hanno popolato la sala dello Spazio Alfieri a Firenze, dove l’opera è stata, comunque meritoriamente, proposta. Nel momento in cui si divide il corpo intero di un’opera (vol. I O inquieto; vol. II O Desolado; vol. III O Encantado ) in qualche modo si inficia la capacità di coglierla nella pienezza delle sue potenzialità e delle intenzioni dell’artista che la ha concepita e diretta. Con questa premessa, su cui torneremo, il lavoro non ci è sembrato degno dei favori a tratti acclamanti con cui è stato accolto dalla critica, soprattutto in Francia, dopo la sua presentazione alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes. Allentata è la connessione, di fatto puramente formale, affidata alla voce narrante di una contemporanea Shahrazād nonché a qualche didascalia, con le Mille e una Notte(distanza peraltro voluta e enunciata da Gomes, ma così allentata da toglierle anche una perspicua funzionalità).
In tutti e tre gli episodi che costituiscono questa seconda parte del tritticoGomes fa un’operazione non priva di suggestività visive (direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom), di esercizio sui generi cinematografici, mostra una libertà di idee e di capacità di raccontare di per sé pregevoli. Ma rivela altresì elementi di presunzione, artificialità, scarsa compattezza, lasciando qualche sensazione di richiamo-vintage a certo cinema teorico e troppo sentenzioso degli anni Settanta. La tradizionee la forza più alta del cinema portoghese o brasiliano (non tanto un Manoel De Oliveira, al quale ci riporta solo l’uso musicale della voce narrante, ma soprattutto un Glauber Rocha, potenzialmente più affine a Gomes quanto a scelte tematichee ideologia) appaiono lontane.
Va però detto che occorrerebbe vedere l’opera tutta d’un fiato, nella sua interezza di maratona di sei ore, prima di esprimere una valutazione piena e convinta e anche per esprimere un giudizio su di una serie di accostamenti a maestri come Antonioni, Pasolini, Ferreri, Buňuel e altri che ricorrono di frequente in commenti al film.
Anche in questo secondo suo segmento, al centro è la realtà del Portogallo di oggi, ritratto da una angolatura di sinistra anticapitalista, di denuncia, che imputa (in modo analogo a noti movimenti emersi nell’agone politico iberico e greco) all’austerità imposta dall’Europa e al governo portoghese che ne ha accolto il programma l’impoverimento generalizzato e il disagio sociale. Sulla qual cosa, espressa all’inizio del film con una dichiarazione apodittica, si potrebbe discutere.
Le tre storie riguardano un anziano e emarginato montanaro, ricercato e infine catturato dalla polizia; un processo il cui tribunale è un antico teatro con protagonisti mascherati; una serie di vicende legate alla vita di un palazzone periferico, dove tutto ruota intorno ai passaggi di proprietà di un piccolo barboncino. Certo c’è desolazione (il tema di questa secondo momento della trilogia), ma si tratta di una desolazione raccontata con una vistosa aspirazione all’eccentricità nella sceneggiatura e nelle ricostruzioni di ambienti (surrealistici, paradossali o iperbolici, nel senso tecnico-retorico del termine, laddove un tocco di realismo in più non avrebbe guastato). Delle tre vicende la più significativa è la seconda, dove un giudice chiamato a risolvere un contenzioso legato a un furto in un appartamento si rende conto che dietro di esso ci sono situazioni e comportamenti delle varie controparti che rendono il giudizio impossibile, il pianto impotente l’unica reazione. Ma lo stesso giudice è una donna, e madre, non esente da un modo di pensare discutibile e maschilista. Metafora di una società dove è difficile vivere e dove è arduo distinguere tra vittime e carnefici o dove forse tutti, tranne il Potere, sono vittime.