Stig Dagerman, La politica dell’impossibile, Iperborea edizioni 2016, pag. 135, € 15,00
Stig Dagerman, scrittore svedese classe 1923, si può definire “socialista libertario”; l’anarchismo di cui si parla quando si fa il suo nome, “ non è solo nato dalle frequentazioni famigliari- scrive Goffredo Fofi nella postfazione al libro “La politica dell’impossibile”- è stato anche una sorta di fenomeno spontaneo, come in molti altri giovani della sua generazione, che hanno vissuto il tempo della guerra e, dopo, la sconfitta delle illusioni in un mondo migliore” . E ancora: “Nella famiglia di coscienti proletari in cui è vissuto, il ragazzo Stig ha sentito il peso della guerra come dell’ingiustizia sociale”. Sognava una società ugualitaria e pulita, la solidarietà tra gli oppressi, l’amore del prossimo, l’apertura al futuro.
Dagerman credeva nella cultura come risveglio delle coscienze, scrivere storie era per lui un impegno morale, desiderava che ne scaturisse la riflessione e che la cultura diventasse strumento di lotta per la libertà da qualsiasi forma di oppressione o di mistificazione della democrazia. Con la certezza che lo scrittore deve lavorare come se fosse una necessità vitale per tutti.
Ha avuto un’infanzia travagliata e la giovinezza segnata da gravi perdite affettive, come rivelato nella sua autobiografia, “Memorie di un bambino” che compare nel 1948. Tra il ’45 e il ’49 in Svezia le sue pubblicazioni creano intorno allo scrittore un’aria di genio e grandi sono le aspettative nei suoi confronti. Intanto vicende private lo caricano di sensi di colpa. Si sente inadeguato ai suoi ideali, probabilmente sente “nell’ansia di prestazione le catene della più moderna forma di oppressione”. Si toglie la vita a 31 anni.
Rimane eternamente giovane e allo stesso tempo ciò che ha scritto ha acquisito un valore universale, vista la forza dei suoi ideali, la profondità dello sguardo con cui analizza i fatti e la società. Anche se riferite ad altri momenti storici, sembrano attualissime queste sue parole comparse in un articolo del 1943: “Forse abbiamo addirittura appreso con una certa freddezza i resoconti delle sofferenze altrui, abbiamo scorso con sguardo indifferente le notizie e pensato: Sì, è orribile, ma non mi riguarda, non è a me che tocca”. E suona tremendamente attuale, se pensiamo a ciò che viene deciso a livello europeo su situazioni umanitarie di enorme urgenza, una affermazione come questa: “lasciamo stare l’infamia per cui un manipolo di delegati può mettersi a giocare a palla con qualche miliardo di destini umani senza che nessuno si renda conto dell’assurdità della cosa, ma quanto è spietato e spaventosamente contrario alla psicologia il modo in cui viene deciso il destino del mondo!”. Dagerman ricorda più volte l’impossibilità dell’individuo di decidere il proprio destino nelle questioni essenziali, rimanendo a vivere in situazioni di impotenza e incertezza. Che cosa può fare lo scrittore? Può “attribuirsi in buona coscienza il ruolo del lombrico nel terriccio della cultura, che altrimenti disseccherebbe nell’aridità delle convenzioni. Essere il politico dell’impossibile in un mondo dove sono troppi i politici del possibile”. Compito della letteratura è mostrare il significato della libertà.
Marisa Cecchetti