Noè Albergati, Cemento e vento, Gabriele Capelli Editore, 2025, pag. 112
Romanzo in versi, si legge sotto il titolo del libro di Albergati, una scelta originale, libera, coraggiosa: ci sono storie ed emozioni che non si possono affidare alla prosa, questa richiede un registro esplicito, squadrato, indagatore; invece il verso suggerisce emozioni con un linguaggio più rotondo, lascia trapelare storie senza snudarle, con rispetto. La leggerezza del verso può avvolgere le storie, rendendo meno invadente il dolore.
Quella che racconta Albergati è una storia d’amore e di sofferenza, ma non nella classica accezione di amore/dolore, eros/tanatos, qui si tratta di uno scivolare lento di lei nella depressione, in una forma di ossessione che le ruba la vita.
Tutto ha inizio in uno splendido agosto sul mare, con una forte scottatura al naso – non può sfuggire il rimando a Il naso di Gogol – che non scompare, bensì diventa una rosacea di cui lei si vergogna, che la isola sempre di più dagli amici, dai suoi alunni, dal mondo. E chiede tutto l’amore, la comprensione di lui, ai cui occhi lei è sempre bella, non ha importanza il rossore sul naso. Eppure in casa scende il silenzio: “Ai pasti, se siamo soli, / non parliamo quasi mai /- tu sempre pronta a scartare sul naso – / poche frasi spente / cosa ho fatto io cosa tu oggi / “Sono un clown, con questo naso, /quando entro in classe /vedo i sorrisini degli allievi”.
Di cemento è la diga sui cui bordi lei cammina, e lì soffia sempre il vento.
Le depressioni forti, malattie che necessitano di cure e talora di ospedalizzazione, distruggono il malato, cancellano il valore della vita, ma logorano anche i familiari, perché c’è bisogno di pazienza e di una attenzione particolare alle parole, ai gesti, a tutto, davanti alla estrema fragilità e alla perdita di desiderio di vita: “ti lasci convincere / per qualche giorno /qualche ora / parole come un filo sbagliato / troppo fragile / per ricucire il mondo / brandelli che si riallacciano per poco / prima che lo strappo nuovamente li laceri”. Nonostante l’attenzione e la cura, può sopraggiungere un momento di stanchezza estrema in cui non vengono in mente altre parole se non “Vai dove cazzo ti pare!”
Lei è uscita in macchina verso la diga di cemento e non è tornata più. Dopo le promesse, i tentativi di cura, le illusorie riprese: “Riprendi i farmaci smetti / stai meglio stai peggio /continui a dire che non hai niente / è solo il naso / se guarisce torno come prima / a me alla psichiatra / a te?”, quella mattina lei è uscita per comprare le sigarette e non è tornata, e il suo telefono è spento, e poi la chiamata alla polizia e la scoperta della verità: “la targa il colore della Micra / blu elettrico che le telecamere non hanno ripreso”.
Arriva la solitudine nella casa vuota di lei, le immagini di momenti di bellezza vissuti, l’analisi delle responsabilità, i sensi di colpa, i mesi delle “emozioni ossimoriche”, dei se ripetuti: se avessi fatto, se avessi detto… Questo narrano i versi di Albergati, che fa toccare il dolore, senza retorica, al di fuori di luoghi comuni, e si apre alla riflessione sul senso della vita, sulla responsabilità di ognuno verso gli altri e verso noi stessi, sull’obbligo morale di non sprecarla, la vita che ci è rimasta. Ma torna una domanda tormentosa: “è meglio ora? – per me – non è meglio?”
E se lui riparte cercando di acchiappare un poco di nuova felicità, è sempre presente l’immagine di lei, delle sue sofferenze: “Mi trovo spesso a pensare / nella mia felicità / che non mi manca niente /e poi mi spaventa / il vento di quella voragine di quell’assenza / enorme”. Diviso tra la paura e il bisogno di dimenticare, tornerà insidiosa la domanda. “perché non è bastato l’amore / la cura / le attenzioni / a frenare il volo?”