Gabriella Ghermandi, Regina di fiori e di perle, Donzelli 2011, pag. 314,€ 18,00
L’autrice, nata ad Addis Abeba nel 1965, trasferitasi nel 1979 a Bologna, città di origine del padre, in Regina di fiori e di perle ricostruisce la storia del suo paese a cominciare dal 1935, lo fa grazie ad una documentazione ricchissima ed attraverso le esperienze personali di narratori che intervengono nel romanzo alternandosi alla voce narrante di Mahlet.
Mahlet era una bambina a cui era ancora proibito ascoltare i discorsi dei grandi, quando Abba Yacob, uno dei tre anziani venerabili della sua grande famiglia, quello a cui lei era più affezionata, le fece promettere davanti alla Madonna dell’Icona che da grande avrebbe raccontato le storie ascoltate lungo il suo cammino: “Quando sarai grande scriverai la mia storia, la storia dei guerriglieri, e la porterai nel paese degli italiani, per non dare loro la possibilità di scordare”. Storie che le vanno incontro, nelle figure di strani personaggi che sembra non abbiano atteso altro che lei per poter disseppellire i segreti. Così vengono fuori pagine dolorose sulla occupazione italiana e sulle azioni della resistenza diffusa nella maggior parte del paese, che vedeva impegnate anche le donne, la più famosa a capo dei guerriglieri era Kebedech Seyoum: “Gli italiani credevano che l’Etiopia fosse tutta nelle nostre mani- racconta un ex capitano italiano a Mahlet ormai adulta -. -Nessuno sapeva che oltre i due terzi del paese erano nelle mani della vostra resistenza”. Resistenza attiva anche sotto il regime del Derg con la dittatura di Menghistu che cade nel 1991.
Sono noti purtroppo gli strumenti con cui le potenze mondiali talvolta schiacciano gli avversari, basti pensare al fosforo bianco con cui i militari USA in appoggio al nuovo governo irakeno sterminarono migliaia di persone nella città kurda di Falluja nel 2004; o i gas usati – e negati- dal governo siriano contro i civili; qui la Ghermandi fa riferimento all’iprite con cui il nostro regime mise in ginocchio la popolazione etiope. Ci afferrano il cuore le parole di un sopravvissuto, quasi incredulo: “Gli italiani si erano messi ad usare un’arma che noi non conoscevamo…Era una nebbiolina avvelenata, dentro a grandi contenitori che venivano lanciati dagli aerei. Arrivati al suolo i contenitori si infrangevano lasciando fuoriuscire una nebbiolina quasi invisibile che si adagiava nelle valli, nei crepacci, nelle gole e ammazzava i nostri uomini bruciandoli da dentro, dai polmoni”. Parole che destano fantasmi e paure in ciascuno di noi, perché l’uomo continua a dimostrare di non avere imparato niente dalla Storia.
Se oggi inorridiamo difronte agli scempi di forze estremiste e parliamo di un ritorno della barbarie, non è minore l’orrore suscitato dalla strage del 12 Yekatit, il 19 Febbraio 1937, quando perirono circa tremila persone secondo le fonti locali, dopo che due giovani etiopi avevano attentato alla vita del maresciallo Graziani: “Non erano i cadaveri di uomini, donne, bambini o anziani ad avermi impressionato. E neppure le mutilazioni genitali e gli organi sparsi per terra. Quello che mi inforcò l’anima come un uncino ricurvo fu la vista di donne incinte con la pancia squarciata e il feto in mostra”.
Nonostante una narrazione e ricostruzione oggettivamente dura e disincantata, niente nel romanzo della Ghermandi suona come un desiderio di vendetta e di odio eterno, anzi con uguale oggettività compaiono pagine belle relative ai soldati di occupazione, i tallian sollato. Mahlet quindi ha risposto all’invito del vecchio Abba Yacob: raccontare perché non si dimentichi, e questo dovrebbe essere il senso della Storia, affinché gli errori non si ripetano.
Messe a confronto le due civiltà, la nostra occidentale del consumismo e dell’individualismo e la cultura che Mahlet ci racconta, fatta di socialità, di condivisione, di tempi più lenti, di riti conservati nel tempo, di rispetto per gli adulti e per la famiglia, di centralità della donna anche nell’impegno sociale, senza escludere la bellezza dell’ambiente, non si può fare altro che stare dalla parte del vecchio capitano italiano che conosce il mal d’Africa, si consuma nella forte nostalgia per quella terra in cui ha vissuto, ma che non tornerebbe più a visitare perché si vergogna di ciò che il nostro paese ha fatto all’Etiopia.