15 Novembre 2024
Words

Populismo. Parte I: gli Usa e Matteo Renzi

Il primo, negli USA, fu Ross Perot. Ve lo ricordate? Il solito magnate americano un po’ pazzoide che, nel 1992, si mise a tuonare, da candidato repubblicano alla nomination, contro il trattato NAFTA col Messico e per la chiusura dei mercati nazionali. La sua azione favorì solo l’ascesa di Clinton, che con la sua democrazia da “Terza Via” rovinò gli USA e poi, con l’Ulivo Mondiale, il resto del globo. Era proprio quello che Wall Street voleva sentirsi dire, la “Terza Via”! Solo che stavolta lo diceva un Democratico: abolizione del Glass-Steagall Act, che separava fino ad allora le banche d’affari da quelle di risparmio e dalle assicurazioni, abolizione di tutti i dazi, soprattutto quelli nei confronti della Cina, abbassamento dei salari a causa della liberalizzazione dei trasferimenti di imprese in Messico e nel resto dell’America Latina.

Perot era il candidato “populista” e Clinton, invece, il tipo smart, quello ammesso alla prima pagina del Washington Post. Le banche comuni si preparavano al tracollo con l’abolizione delle garanzie sui depositi rispetto alla Banca di Emissione, prodromo delle successive “bolle” a ripetizione della finanza globale. Gli USA si deindustrializzavano, mentre la loro manifattura se ne andava o in Cina o in Messico; aumentavano quindi i disoccupati con la “esternalizzazione” delle produzioni. Ma il mondo era bello, la democrazia si esportava che era un piacere, soprattutto nei Balcani, distruggendoli, tutto era buono nel mondo dei lustrini hollywoodiani, ossessionati dalla fame in Africa e dall’AIDS. Che – ricordò il vecchio Sabin – quello del vaccino omonimo, faceva meno vittime del vecchio morbillo, nel mondo della globalizzazione e della nuova politica Third Way, dorato come uno spot pubblicitario.

Il fatto che i desiderata della comunità finanziaria fossero eseguiti con rapida precisione dall’uomo di sinistra Clinton aggiungeva a tutto ciò quella punta di snobismo che, in politica, non fa mai male.

Ecco un primo tratto dell’antipopulismo attuale: è esercitato da uomini di sinistra, che però ripetono a pappagallo le formuline che credono di leggere sul Financial Times.

Ma che cosa si intende con il termine populismo?

Tutti oggi, in politica, usano le tecniche di seduzione comunicativa: ipersemplificazione, personalizzazione, demonizzazione dell’avversario, manipolazione semantica che sono state inventate nella pubblicità dei prodotti a largo consumo e poi sono state applicate alla comunicazione elettorale e politica. Ora, però, la politica elettorale non è più così “di largo consumo” e vincono allora i venditori di nicchia, quelli con un vecchio brand, gli inventori dell’acqua calda, come internet e la “democrazia universale”, gli spacciatori di alabarde, i venditori di identità a basso costo. Chi vota, oggi, lo fa perché pagato o perché si aspetta ragionevolmente un beneficio dalla sua preferenza. O con le buone (la democrazia) o con le cattive (la malavita).

Lo sanno bene gli esperti di marketing: devi produrlo in massa, devi venderlo come se fosse un pezzo unico. La politica è teatro popolare, e senza narrazione, plot, sorpresa nella confezione, smagliante involucro un po’ rétro, non si vende niente.

Così la politica dei vecchi eredi della Third Way globalizzatrice mettono tutto nella stessa plasticaccia. Invece, quelli che sono bollati come “populisti” imbustano la loro merce in involucri più invoglianti. I politici non “populisti” devono, in sostanza, cambiare mestiere. Chi non sa vendere l’amarissimo che fa benissimo non può nemmeno rifilare una nuova tassa.

Matteo Renzi è un populista, allora? In un certo senso sì: comunica solo le cose buone, le ripete fino all’ossessione, personalizza tutta la sua prassi politica, lancia slogan superottimisti. È figlio della global democracy, che a lui appare come la grande bellezza del Moderno, con in più una spruzzatina di La Pira.

Non so se Renzi, nella sua tesi di laurea, avrà citato la bellissima polemica che oppose La Pira a Ernesto Rossi. L’economista liberale polemizzò contro il “sindaco santo” e gli ricordò che, per l’acquisizione della fabbrica fiorentina Nuovo Pignone da parte di ENI, mantenere operai improduttivi equivaleva alla creazione di disoccupati. Ma i voti premevano e il populismo cattolico del siciliano trapiantato a Firenze fece il resto. Populismo oggi è fare presto, perché la gente dimentica subito le cose buone e vuole sempre nuovi orizzonti, brividi, soluzioni a portata di mano. Senza spendere troppi soldi, che non ci sono. La finanza globale, liberalizzata, si è dimenticata di pagare le tasse e oggi i capitali che arrivavano al Fisco i politici li vedono come i treni alla stazione. Il vecchio populismo era invece pieno di quattrini.

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