15 Novembre 2024
Culture Club

Una serena lontananza. Ci lascia Yves Bonnefoy

Quando muore un poeta il mondo mette il lutto. O almeno dovrebbe. Eppure Yves Bonnefoy non era soltanto un poeta: ha attraversato il secolo scorso come un umanista del Quattrocento. Non è un caso che amasse Piero della Francesca, sulla cui opera scrisse critiche importanti. Teneva dentro di sé una cultura che sconfinava nella storia dell’arte, nella musica, nella letteratura. Era come un uomo dell’Ottocento che viveva un legame profondo con i secoli precedenti, cioè teneva in sé tutto il malloppo della cultura occidentale. Un legame indissolubile con la cultura classica che parte dai greci e arriva fino a noi, anche se ormai sempre con maggiori impacci, distinguo, rumori di fondo.

A 93 anni Bonnefoy aveva potuto costruire una mente erudita e saggia. Nella sua incapacità di offrirsi in pasto al successo, dimostrava una serena lontananza. Si era anche occupato di fotografia, scavando il tema della differenza tra l’immagine e il sé, scrivendo ultimamente anche contro la moda dei “selfie”, per il rischio dell’uomo contemporaneo – diceva – di identificarsi troppo o soltanto con l’immagine.

Quando muore un poeta la comunità dei poeti resta a proseguire il lavoro, e anche ad interrogarsi su chi ci ha lasciati. “Lui non doveva fare il poeta – spiega il poeta francese Bernard Vanel, una delle voci d’Oltrealpe più originali, appartenente alla generazione dei sessantenni -, aveva cominciato studiando matematica, ma il suo trasferimento a Parigi per studiare alla Sorbona, e la conoscenza con Breton lo spinse verso la letteratura”.

“Bonnefoy diceva che il poeta non si deve fidare delle parole – prosegue Vanel – perché la poesia ti deve permettere di trovare il secondo grado della lingua, quel modo di andare al di là delle parole. Eppure era molto ancorato alla realtà. Per me la sua poesia è una poesia della realtà. In Francia l’abbiamo sempre percepito come un poeta sincretico, cioè uno che nella sua poetica ha fatto la sintesi di molte scuole letterarie, come il romanticismo e il surrealismo. Era fissato con Rimbaud e Baudelaire e ha avuto un merito enorme come traduttore, di Leopardi e i romantici inglesi, ma sorpattutto ha tradotto splendidamente almeno una decina di testi di Shakespeare. Qualche anno fa fu coinvolto in un progetto di Gallimard, l’antologia dei Poeti del Mediterraneo, che voleva cominciare a essere un atlante importante della poesia del sud Europa, di cui Bonnefoy scrisse la prefazione”.

C’è chi invece si dice grato al mondo perché Bonnefoy è esistito. Ed è Tomaso Kemeny, anglista e poeta che a Milano ha diretto per anni Casa della poesia. Si deve anche a lui, di famiglia ungherese, se il poeta francese ha potuto ricevere, nel 2014, il premio Janus Pannonius, che ha uno dei più alti compensi in denaro. “Lo proposi per questo grande premio perché sono sempre stato un suo estimatore – sostiene Kemeny – e da anglista gli sono grato per le sue eccezionali traduzioni in francese di John Keats. Bonnefoy riteneva che la poesia fosse il principio formale dell’armonia del mondo, una poesia di autenticità che mirava anche a una dignità dell’esistente. Non esagerava nella critica del presente, ma si rivolgeva alla costruzione di un io che guardava alla vita come compresenza di presenza e assenza, cioè uno dei concetti chiave della letteratura novecentesca. È stato uno dei maggiori scrittori che celebrava il reale nelle forme viventi, ed è per questo che amava lo scultore Alberto Giacometti, perché nelle sue opere non perdeva mai di vista la figura umana, anche se la costruiva e la modellava alla sua maniera”.

“A me – conclude Kemeny – mi aveva stregato con tre saggi critici: uno su Breton, al quale si era avvicinato per abbandonarlo perché Bonnefoy collegava le parole alle cose ed era quindi un poeta dell’autenticità, ispirato soprattutto dal grande Mallarmé; uno su Baudelaire col quale conveniva che il successo è impossibile: uno su Leopardi del quale ammirava la capacità di spiegare al lettore la differenza tra finito e infinito.

Bonnefoy era un uomo eccezionale. Era molto vitale. Ancora a 90 anni mangiava come un ragazzo. Sono stato con lui al premio Pannonius e ho potuto vedere quanto fosse colto e diffidente del successo. Temeva di essere fotografato o intervistato. La sera che arrivò l’attore Gerard Depardieu a leggere le sue poesie e quelle di Adonis, che era premiato con lui, disse che doveva rientrare a casa e se ne andò. Non amava la spettacolarizzazione della poesia. In un mondo di narcisi scatenati sembrava un po’ sperduto”.