RETROSPEZIONI- “L’odio esplode a Dallas” (“The Intruder”, R. Corman, USA 1962)
IL RAZZISMO NEGLI USA E I SUOI ANTICORPI
Nel 1962 l’eclettico, genialoide e iperattivo Roger Corman (Detroit 1926-), regista e produttore indipendente fin dalla sua età giovanile, la cui fama è a torto quasi esclusivamente legata al ciclo di Poe e agli horror con Vincent Price, dirige e produce The Intruder – L’odio esplode a Dallas. Un film in cui Corman esprime efficacemente le sue posizioni antisegregazioniste facendole di fatto arrivare a condividere alla società municipale di Caxton, town immaginaria del sud texano. La storia tratta da un romanzo di Charles Beaumont, ambientata negli anni’50 del secolo scorso, è lineare, il bianco e nero magnifico, l’inventiva non manca a Corman e si manifesta in tanti dettagli.
Un giovane aitante esponente di una fantomatica organizzazione chiamata Patrick Henry Society si reca a Caxton dove recentemente un giudice ha “imposto”, a suo dire, anche al governatore (ma in realtà estendendo una normativa federale), una politica di integrazione tra bianchi e neri. Egli la dichiara inaccettabile perché non condivisa dalla gente, prodotto di una finta democrazia. Adam Cramer (William Shatner: diventerà famoso come capitano Kirk nella serie televisiva di Star Trek) gioca sulle sue qualità di seduttore, e di formidabile istintivo oratore per conoscere meglio gli abitanti del posto, farsene amico, intrufolarsi nelle loro vite, con l’obiettivo di far leva sui sentimenti di mal tollerata accettazione di questa nuova linea di integrazione culturale (ma un’accettazione che si basa su gerarchie indiscusse: “non ci piace, ma la legge lo ha stabilito” ripetono sovente i locali). Oggetto dello scandalo, l’apertura di una scuola comune a bianchi e neri. Con un discorso pubblico serale, nella penombra, dinanzi alla cittadinanza di Caxton assiepata, che costituisce a mio parere una delle più brillanti scene di oratoria della storia del cinema, Cramer diventa un paladino locale: esorta con successo alla ribellione contro il provvedimento, in nome dell’America profonda (non quella corrotta di Chicago e New York), dell’anticomunismo e dell’antisemitismo. I fantasmi del Ku-klux-clan compaiono nelle strade e la città è funestata da prevaricazioni, violenze, incendi dolosi, e dall’uccisione del prete di coloro che dirige la scuola. Ma Cramer rimane uno straniero immodesto, e la sua spregiudicatezza lo trascinerà, come un destino segnato, al fallimento. Anche coloro che lo avevano accolto come un liberatore, e un magnate locale che lo sosteneva, lo isoleranno quando sarà svelato come egli abbia indotto col ricatto una sua giovanissima amante ad accusare di violenza sessuale un compagno di classe di colore. Un vicino di appartamento di Cramer, omone apparentemente rozzo e dedito a stravizi sessuali con la moglie (che aveva ceduto a sua volta alla forza seduttiva di Cramer), ma sorprendentemente tra i personaggi positivi del film, assurgerà al ruolo di colui che umilia Cramer, costretto ad abbandonare con le pive nel sacco la cittadina che ha ingannato.
Il film non ebbe successo. Significativamente, durante le riprese la gente del posto (una località del Missouri) protestò per il ritratto razzista che – nella maggior parte delle scene – emergeva dei loro atteggiamenti.
Film assai interessante per far capire certo le pulsioni dell’America verso la questione razziale ma anche i suoi anticorpi: il rispetto della legge, il disprezzo verso la menzogna, un fondo di bontà, umanità e fratellanza. Gli eventi degli ultimi anni (e i recentissimi di Dallas), con le violenze dei policemen e le reazioni altrettanto violente dei neri di alcune realtà locali devono farci riflettere: la facilità di compravendita delle armi è una piaga degli USA, che Obama ha tentato di frenare, dovendo fare i conti con un Congresso, interessi economici, e una mentalità comune spesso ostile. Ma la maggioranza degli americani non sono razzisti. Prima di definire quella società come una società che ancora trasuda in prevalenza odio e aggressività nei confronti della diversità fisica e culturale (come molti grazie alla cassa di risonanza dei social networks, con un protagonismo autocostruito, patetico e artificiale, cercano di diffondere) andrebbe forse fatta una verifica sociologica più attenta di come funzionano le cose lì e come funzionano altrove.