24 Novembre 2024
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Riccardo Dalle Luche, Angela Palermo, Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo, Mimesis 2016, pag 188, € 20,00

La salvezza di Frida Kahlo è stata senza dubbio la sua pittura. Frida dipinge per raccontarsi, come fa uno scrittore che unisce le storie inventate a quelle della propria vita. Lo ammette lei stessa nei suoi Diari, che inizia a scrivere nel 1942: “A volte mi chiedo se la mia pittura non sia stata…più simile all’opera di uno scrittore che a quella di un pittore. Una specie di Diario, oppure la corrispondenza di tutta una vita”.

Rimane da chiedersi se F K sarebbe stata questa icona che il mondo conosce senza il terribile incidente che l’ha coinvolta a 18 anni, quando, studentessa in Medicina, tornando a casa, l’autobus su cui viaggiava è stato travolto da un tram e lei è stata attraversata, dalla pancia all’utero, con fuoriuscita dalla vagina, da un corrimano di ferro. La sua pittura è iniziata sul letto a baldacchino della lunga e dolorosa convalescenza, con uno specchio sistemato in alto, perché si potesse osservare.

Non nuova al dolore -aveva contratto la poliomielite nel 1913 rimanendo con il piede destro lievemente deforme – e, se vogliamo tornare indietro nel tempo, era stata allevata da un balia india perché la madre, che aveva già perso un bambino alla nascita, prima di Frida, era caduta in depressione post partum. Le cicatrici successive saranno innumerevoli, sia fisiche che psicologiche. Tra quelle fisiche si contano tre aborti, sette interventi alla colonna spinale, l’amputazione della gamba destra nel 1953. “In questo senso – scrivono Riccardo Dalle Luche e Angela Palermo – si può dire che le tele di FK sono le reali cicatrici, il sacro feticcio della sua identità, gli ex voto di miracoli non compiuti se non da lei stessa per restare viva”. Nata nel 1907 a Coyoacàn, nel Messico, da padre tedesco, fotografo di dagherrotipi e da madre messicana, lì morirà nel 1954, affetta da polmonite, nella casa blu di famiglia, forse aiutata da un ultimo atto d’amore di Diego Rivera mediante una overdose di morfina.

La conoscenza di Diego Rivera, famoso pittore di murales, avviene quando lei si prepara a studiare Medicina, ma l’incontro decisivo è del 1928, seguito dal matrimonio, l’anno successivo. Diego è l’uomo che la completa, il suo primo terapeuta. Lei stessa scrive:  Mai in vita mia/Dimenticherò la tua presenza./ Tu mi hai presa quando ero spezzata/E mi hai riparata.

Il rapporto con Diego è traumatizzato da storie di adulterio, addirittura lui la tradisce nel 1934 con la sorella minore di Frida, Cristina.  E lei nel ‘31 inizia una lunga storia d’amore con il fotografo Nickolas Muray, nel ’34 con Lev Trochij, nel ’35 con lo scultore Isamu Noguchi, tanto che nel 1939 si arriva al divorzio. Ma nel 1940 si celebra un secondo matrimonio tra i due, con un contratto che stabilisce regole rigidissime, ma che permette loro, comunque, di stare vicini.  Sul loro rapporto così si esprime  il Nobel per la letteratura Le Clézio: “I rischi dell’esistenza, le meschinerie, le disillusioni, non possono interrompere questa relazione, non di dipendenza, ma di scambio perpetuo, simile al sangue che scorre e all’aria che respiriamo. La relazione di Diego e Frida è simile allo stesso Messico, alla terra, al ritmo delle stagioni, ai contrasti dei climi e delle culture. E’ una relazione fatta di sofferenza, di crudeltà, ma anche di assoluta necessità”.

Riccardo Dalle Luche e Angela Palermo -lui medico, psichiatra, psicoterapeuta fenomenologico-dinamico, lei dottore di ricerca in Filosofia- hanno analizzato con grande precisione ma anche con vicinanza affettiva, la vita, le opere, i diari di FK, la ricchissima bibliografia, realizzando un percorso che apre al lettore un mondo vastissimo, a livello culturale, storico, psicologico. Perché Frida Kahlo ha detto tutto di sé attraverso linee e colori: la sua vita reale, l’onirico, la storia del suo paese, il pensiero politico, il magico, i suoi feticci e le sue ossessioni, la sua spiritualità. Sempre realista, concreta, profonda. “Frida Kahlo è in realtà un essere meraviglioso, dotato di una forza vitale e di un potere di resistenza al dolore di molto superiori alla norma…Vede molto più lontano, nell’infinitamente piccolo, ciò che noi vediamo, e questo si aggiunge al suo potere d’implacabile penetrazione dei pensieri, delle intenzioni e dei sentimenti degli altri” (Tibol 1983).

I suoi autoritratti la dipingono dentro e fuori, come si sente e si percepisce in ogni momento. Il suo sguardo ci cattura e ci coinvolge come quello di una divinità pagana: “Bisogna che il quadro vi guardi- scrive nei Diari- quanto voi lo guardate”. In un continuo rimando tra autore e fruitore.  Ed è attraverso questo continuo gettar fuori la sua sofferenza e la sua storia, che riesce a salvarsi, “con la straordinaria capacità di resilienza, cioè la capacità di sopravvivere e di rivolgere in positivo eventi ed esperienze gravemente avverse” che hanno segnato la sua vita intera.

Personalità inquieta, curiosa, profonda, identità instabile, segnata dai traumi subiti, cerca disperatamente la vita, fino in fondo ed in ogni modo. Sulla sua discussa omosessualità lei stessa scrive: “Non c’erano mezze misure possibili, poteva essere tutto o niente. Di vita, d’amore, ho una sete inestinguibile. E poi, più il mio corpo era ferito, più provavo il bisogno di affidarlo alle donne: lo capiscono meglio. Tacita intesa, dolcezza immediata”. Anticonvenzionale, ribelle, sempre fedele a se stessa.

Ma, come dicono gli autori nelle premessa, “una psicoanalisi immaginaria di FK non ha soltanto le connotazioni negative di non scientifica, non autorizzata né richiesta, irreale, cartolaria, ma anche positive, in quanto la produzione immaginaria che ci ha lasciato questa donna straordinaria è assolutamente isomorfa alla comunicazione analitica, fatta com’è di annotazioni intime, di materiali e opere simil-oniriche, di diari vergati secondo le regole dell’automatismo mentale e del processo primario”.

 

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.