Mia Couto, Perle, Quarup 2011, pag. 128, € 13,00. Traduzione di Bruno Persico.
Non avevo mai incontrato una scrittore che sapesse giocare con la lingua come Antonio Emilio Leite Couto, in arte Mia. Mozambicano del 1955 è considerato uno dei maggiori scrittori contemporanei in lingua portoghese, tradotto in moltissime lingue. Compito non facile per il traduttore, ma senza dubbio intrigante, rendere quella sua strana lingua in Italiano e mantenerne il fascino. Nei ventinove racconti di Perle, brevi e fulminanti, a dirla con parole sue “ intreccia tessuti africani usando stoffe e fili europei”. La sua è una lingua “in stato d’infanzia”, fatta di sperimentalismi fonici, di neologismi fantasiosi ma perfettamente riconoscibili, contenenti il suono stesso dell’azione e dell’immagine, una lingua giocosa ma densa, che implica una infinità di rimandi, ammiccante e magica. Nell’infanzia, secondo Mia Couto -scrive nella postfazione Silvia Cavalieri- ognuno di noi fa un’esperienza linguistica cruciale, quella dell’”idioma del caos”, sregolato, libero e cangiante: conservare traccia di questa avventura primigenia in età adulta ha un valore conoscitivo profondo. Così possiamo leggere: “Nel mio villaggio le donne cantavano. Io piantoggiavo. Solo quando piangevo mi sopraggiungevano bellezze…Le mie natiche si invedovavano di panca in panca, in pancia circonflessa…io danzavo già tra le fiamme, accarinezzata dagli ardori dell’infine” (da: La gonna pieghettanimata). Ed anche “ O ancora, secondo altre voci nascoste, il vicino si era forse spettinato con lei, nottemerario? Questo vicino sarebbe sempre stato una gatta-viva, un uomo con i suoi scheletri fuori dell’armadio” (da : Maria Pietra all’incrocio dei sentieri)
Le situazioni raccontate oscillano tra il realismo e il sogno e la fantasia, questi come vie di fuga e salvezza, in un contesto che tende al surreale, che non esclude la pazzia e nemmeno la tenerezza Infatti “E’ un bene che non vi sia penuria di pazzi. Gli uni di seguito agli altri, a guisa di rosario. Come tante perle allineate lungo il filo della miscredenza” (Da: Pesce per Eulalia).
Popola le storie un’umanità sofferente, deprivata, abituata ad obbedire, legata alle tradizioni tuttavia concreta, semplice fino all’ingenuità tuttavia capace di trovare la forza proprio dentro quella dimensione. Come la vedova di Sempronio, che era abituata ad addormentarsi insieme al suo vecchio davanti alla TV , che era vitale per loro, perché i personaggi delle fiction tornavano tutte le sere da loro, i figli no. Gli fa mettere il televisore smontato nella bara e l’antenna, fatta di coperchi, sulla fossa. E va al cimitero la sera: “Quando arrivò aggiustò l’antenna come per orientarla in direzione della luna. Poi si passò il dito intorno agli occhi per rubare una lacrima. Portò infine quella piccola goccia sul coperchio della pentola come se volesse renderlo più brillante. Tra sé mormorò: così prende meglio il segnale. Nessuno la udì, però, quando si curvò sulla terra e disse a bassa voce: – Oggi la TV la accendete voi, Sempronio. Accendetela, che io intanto mi addormento”.