Il piuttosto melassoso romanzone di F. Ozon: “Frantz” (Fra-Ger 2016)
François Ozon (Parigi 1967) è uno degli autori francesi più quotati. La sua fama si lega (oltre e dopo il primo successo di Sotto la sabbia, del 2000) al simpatico Otto donne e un mistero (2002), 12 nominations ai César 2003, con il quale vinse la sfida di riunire e far recitare insieme svariate dive del cinema francese: dalla Ardant alla Béart, dalla Deneuve alla Huppert. Tra i suoi film più noti anche il discusso “thriller hitchcockiano” (così spesso si definisce) Swimming Pool (2003) e Il tempo che resta (2005). Temi talvolta provocatorii, la tendenza a cambiare “pelle” e soggetti, ma uno stile di direzione tutto sommato lineare e classico. A noi pare poi che Ozon si stia progressivamente avvicinando a meritare la dignitosa ma non prestigiosissima definizione di “bravo artigiano” della regia cinematografica.
Il suo Frantz, candidato al Leone d’Oro 2016, riprende un soggetto già utilizzato da Lubitsch in un film del 1932, L’uomo che ho ucciso, che a sua volta si basava su un lavoro teatrale francese del 1930 di Maurice Rostand, chiaramente legato ai drammi postbellici. E’ presentato innanzitutto come la storia di un amore infranto, o piuttosto mai sbocciato, sullo sfondo di un villaggio della Germania durante i postumi della I guerra mondiale tra Anna (Paula Beer) – una giovane donna stravolta dalla uccisione in guerra del suo promesso sposo (Frantz: il nome di un protagonista che di fatto è assente) – e Adrien (Pierre Niney), il soldato francese che di tale uccisione è stato diretto responsabile. I due giovani si “studiano” e poi si conoscono sulla tomba di Frantz presso la quale si recano entrambi per disperazioni diverse. Anna però ha ancora voglia di vivere, si incuriosisce di Adrien e fa in modo che familiarizzi coi genitori del suo perduto amore, nella cui casa è andata a vivere. Naturalmente qualcosa Ozon vuole trasmettere: l’orrore innaturale della guerra e il nazionalismo gretto e bellicista contrapposto al pacifismo di pochi, l’irresponsabilità dei combattenti e le responsabilità storiche degli stati, la psicologia devastata del reduce, il rapporto tra realtà e finzione, tra menzogna e verità (i genitori di Frantz non la sapranno mai, celata loro da Adrien (personaggio che si rivela pian piano meno positivo di quanto non appaia inizialmente) con la complicità di Anna: alla quale Adrien confessa e in qualche modo scarica l’immane peso della verità. Un altro elemento simbolico è il viaggio (della speranza di espiare, da parte di Adrien in Germania; di ritrovare Adrien, di Anna in Francia), e il suo fallimento. Il film si chiude con Anna seduta, quasi inebetita, in inutile contemplazione (e attesa) davanti a Le suicidé di Manet (1877-1881: cf. qui l’immagine in evidenza), il quadro verso il quale tutte le figure chiave provano una torbida attrazione.
La lentezza della pellicola rasenta la noia, la trama nonostante alcuni dei suoi aspetti più connotanti siano occultati, è quantomai prevedibile, romanticismo e lacrimucce non commuovono affatto, non toccano corde profonde. Sul piano formale l’uso del b/n (da taluni collegato ad una presunta migliore resa della ricostruzione d’ambiente, sia degli interni che degli esterni) alternato al colore a seconda degli stati d’animo e del clima psicologico delle singole scene è un espediente formale che non aiuta.