15 Novembre 2024
Culture Club

Il Nobel aveva bisogno di Bob Dylan

Difficile intervenire sul caso del Nobel a Bob Dylan dopo che praticamente è stato detto già tutto e il contrario di tutto. Vale la pena però provare a fare una riflessione a posteriori sulle discussioni di questi giorni.

Fa un po’ male vedere quanto, a fronte della scelta dell’Accademia di Svezia di attribuire il Premio Nobel per la letteratura a un cantautore, il dibattito acceso e condotto dagli scrittori si sia così ampiamente esercitato intorno a una serie di argomenti che vanno poco oltre lo slogan; soprattutto da parte di chi a questa scelta si è dimostrato avverso e che avrebbe potuto esprimere qualche concetto in più per argomentare la propria posizione.

Baricco, che dice letteralmente “Non riesco a capire cosa c’entri Bob Dylan con la letteratura”, ci pone addirittura dei seri dubbi sulle sue attuali capacità di intendere (meno su quelle di volere). Il livore di Welsh (“Questo è un premio di nostalgia mal concepita, strappato dalla prostata rancida di senili hippy farfuglianti”) o di Murakami (che autocitandosi commenta “Non dispiacerti per te stesso. Solo gli stronzi lo fanno”) parlano da soli.

Più in generale l’argomento principale, anche da parte di coloro che si sono espressi in modo più ragionato si può sintetizzare così: una cosa è la canzone e un’altra cosa è la letteratura. Questo vale anche come sintesi degli argomenti messi in campo da Tiziano Scarpa nel suo articolo su Il Primo Amore, che però vale la pena di leggere intergralmente per rimediare alla mia sintesi brutale che non rende giustizia alla ricchezza dell’intervento (qui http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/blogDATA/spip.php?article3599 ).

Ma veramente basta così poco a chiudere il discorso? O comunque dovremmo interrogarci di più proprio sul fatto che il più prestigioso premio letterario del mondo venga attribuito a un cantautore? Laddove, poi, nemmeno il coro degli entusiasti lo fa, preoccupandosi soprattutto di documentare il valore letterario dell’opera di Dylan e/o ritenendo il Nobel a un cantautore un fatto naturale. Mi riferisco in questo ultimo caso alle dichiarazioni celebrative di Don Delillo, Salman Rushdie, Stephen King, Joyce Carrol Oates e molti altri; per non dire dei “colleghi” di Dylan, tra cui Leonard Cohen è il più lapidario di tutti: “È come aver dato al monte Everest una medaglia per la montagna più alta del mondo”.

Se ci sottraiamo senza troppe remore alla diatriba tra detrattori e sostenitori, ci pare proficuo riflettere invece sul significato del fatto che il Nobel per la Letteratura vada a qualcuno che indubbiamente fa qualcosa di molto diverso da quella che siamo abituati a chiamare letteratura.

La domanda implicita a cui l’Accademia di Svezia dà una sua risposta è soprattutto la domanda su cosa sia la letteratura oggi. E quindi è una domanda prettamente “culturale” e più specificamente, a voler essere particolarmente puntigliosi, una domanda sulla storia dei generi artistici e delle idee.

A tal proposito, lasciando perdere le riflessioni sulle radici orali e musicali della poesia e della letteratura (da Omero e prima fino ai cantastorie provenzali e oltre, che qui sinceramente c’entrano poco), voltarsi indietro e guardare anche solo al Novecento e oltre significa non poter ignorare come nello sviluppo dei generi artistici siano crollati gran parte dei muri che dividevano le forme che l’Ottocento aveva consegnato al secolo successivo (si sa, “walls come tumbling down”).

 

Pensiamo alla rivoluzione delle arti figurative con l’introduzione di sempre maggiori innovazioni tecniche: chi spenderebbe oggi tempo per difendere l’idea che l’arte è quella che si fa soltanto con le mani e la materia grezza? L’argomento non sarebbe dissimile da quello di chi trova difficile digerire il fatto che l’Accademia di Svezia non concepisca “il fatto letterario in quanto tale” (come scrive Pietro Montorfani), da quelli di Baricco sulle indifese parole della letteratura in guerra contro le parole della canzoni armate di musica, o da quello di Scarpa quando dice che Dylan ha scritto poesie “destinate esclusivamente a un apparato amplificatore e riproduttore elettrico” (cosa che tra l’altro più che archiviata andrebbe discussa, come gran parte degli altri argomenti di Scarpa e come accade infatti virtuosamente anche da parte dello stesso autore sul blog di Massimo Giuliani, qui: https://massimogiuliani.wordpress.com/2016/10/17/quanto-centra-dylan-con-la-letteratura-da-uno-a-due/ ).

Oppure pensiamo – senza dover attingere agli argomenti legati all’impatto della tecnologia – all’evoluzione delle forme dei generi teatrali, ai confini ormai definitivamente esplosi di quello che eravamo abituati a chiamare “teatro”, a partire dalla fatidica quarta parete fino a tutte quelle che lo delimitavano come genere dalla danza, dall’opera, dalla musica e infine (per chiudere e saldare il cerchio con quanto accaduto all’arte propriamente detta) dalla “performance”.

A tal proposito, l’intervento di maggiore lucidità mi pare quello di Claudio Giunta, intervenuto sul Sole 24 Ore per dire che «non si tratta di dichiarare che le canzoni sono come le poesie, o sono le poesie del nostro tempo, né che i testi di Dylan si possono leggere come si leggono quelli di Montale o di Brodskij; si tratta di prendere nota con gratitudine del fatto che da mezzo secolo a questa parte un nuovo genere è venuto ad arricchire e a complicare il macrogenere che chiamiamo Letteratura» (l’intero intervento si può ora leggere sul sito web di Giunta, qui http://www.claudiogiunta.it/2016/10/dylan/ ).

 

Del resto una risposta a tutti i dubbi di questi giorni l’Accademia di Svezia, per assurdo, l’aveva già data ante litteram sin dalle origini del Nobel, stabilendo i criteri di assegnazione del premio: avere massima rilevanza in campo idealistico ed essere di beneficio per l’umanità, come ci ricordano Sandro Veronesi sul Corriere e Ezio Tarantino nel suo Blog senza qualità (qui https://blogsenzaqualita.wordpress.com/2016/10/17/bob-dylan/#more-2610 ), in un intervento esemplare per la documentazione di un ragionamento che provoca la sua stessa conversione dalle ragioni del No alle ragioni del Sì (no, non parliamo del referendum di Renzi). Tarantino fa una cosa piuttosto rara nel panorama odierno della rete: si fa un’idea. Cosa che è molto diversa dal partire all’arrembaggio di un tema argomentando a difesa di una tesi sorretta da ragioni istintive, da attrazioni simboliche, giudizi stratificati e quant’altro. Che il suo intervento, al di là del caso-Dylan, ci possa insegnare qualcosa?

Martino Baldi

Martino Baldi è nato nel 1970 a Pistoia. Già giornalista televisivo, organizzatore culturale e scrittore, suoi testi poetici, narrativi e di critica sono presenti e dispersi in volumi, riviste e antologie in Italia e all'estero. È caporedattore della rivista "The FLR - The Florentine Literary Review". Lavora come bibliotecario alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia, per cui ha ideato e organizza il festival letterario "L'anno che verrà - i libri che leggeremo".