22 Novembre 2024
Words

Presidente Donald Trump

Donald Trump, 70 anni, terrà in mano la valigetta con i codici nucleari, i destini degli Stati Uniti e di una larga fetta di pianeta. Partito da outsider, ha avuto contro tutti i grandi centri di potere, la finanza, le lobby, i mass media. Ma a favore ciò che più conta: il voto popolare del Paese che ha inventato la globalizzazione per poi ritrarsi spaventato dentro i suoi confini quando ne ha misurato gli effetti. Scambiandolo per uno di loro, gli americani arrabbiati, insicuri e delusi dalle élite hanno scelto come presidente un miliardario di lingua svelta e di dubbia moralità pubblica, refrattario nel pagare le tasse, bugiardo, xenofobo e razzista.

Lo ha scelto l’America che sogna un’impossibile Arcadia di se stessa, un ritorno al futuro verso confini sicuri e blindati, un isolamento dal mondo tempestoso e infido, la retorica della casetta col giardino e il barbecue.

E sono tutti legittimi i paragoni con la Brexit, con l’utopia retrograda che anche gli inglesi hanno inseguito poco più di quattro mesi fa.

Trump è riuscito a risultare “nuovo” con la sua discesa in campo contro un establishment dai riti paludati, sempre più astrattamente rinchiuso in un proprio guscio, lontano dalle viscere di una nazione ribollente di risentimento, angosce, paure. Comunque più nuovo di quella Hillary Clinton che era, invece, l’esatta espressione dell’invisa classe dirigente, con una troppo lunga e chiacchierata frequentazione del potere. Sarebbe troppo semplice concludere che gli Stati Uniti sono stati pronti per un presidente nero e non lo sono ancora per una presidente donna. La verità è che Barack Obama, otto anni fa, era il candidato di rottura, perfetto per superare l’infausta era Bush culminata con le sciagurate guerre mediorientali e l’inizio della forte recessione. Mentre Hillary era, semplicemente, la candidata sbagliata, espressione di una successione dinastica e di una logica tutta interna alle dinamiche familistiche prima ancora che partitiche. Persino la sua indubbia preparazione “professionale” è stata un boomerang, nel momento in cui l’emotività degli elettori chiedeva di sottrarre le chiavi del potere a chi era troppo abituato a infilarle nella toppa. I democratici, proponendola, non hanno capito che la scelta dell’ex first lady, ex segretario di Stato, era una scelta appunto ex, non aveva in sé la forza di alcuna novità e incarnava l’immutabilità della classe dirigente.

Eppure i segnali li avevano avuti, con l’inaspettata resistenza che le aveva opposto, nelle primarie, un radicale come Bernie Sanders. Perché questi sono tempi di radicalità, messaggi netti, posizioni chiare. Trump ha colto fino in fondo lo spirito dell’epoca, piegandolo su un programma sconcertante fino alla provocazione, quasi ai margini di quella che chiamiamo civiltà.

Cosa ci sarebbe voluto per batterlo? Un avversario capace di rappresentare una soluzione di continuità, una speranza per le giovani generazioni, che facesse sognare senza uscire dal perimetro di quei diritti acquisiti che sono il progresso.

Ora tocca al miliardario Trump, l’uomo delle divisioni, cercare di ricucire il tessuto connettivo di una nazione slabbrata e fiaccata da una campagna elettorale velenosa. Difficile che ci possa riuscire senza mutare la pelle mostrata sinora. E se questo è un problema solo interno, il resto ci riguarda invece assai più da vicino.

Mantenesse fede a quanto dichiarato nei comizi, porterebbe l’America verso uno splendido isolamento securitario che la allontanerebbe dal suo ruolo guida nelle aree di crisi del pianeta. A partire da quel Medioriente a noi tanto vicino che come Europa ci toccherebbe gestire quando sinora abbiamo dimostrato di non esserne capaci. Ci sarebbe un vuoto da coprire, con un candidato che s’avanza per riempirlo. È l’altro grande vincitore delle elezioni americane. Abita a Mosca e si chiama Vladimir Putin.

[da L’Espresso]