I chiaroscuri di Malick (Knight of Cups, USA 2015)
La noia non può essere un parametro di giudizio serio per valutare una pellicola. Tarkowski e Anghelopulos ne sarebbero seriamente e ingiustamente danneggiati. Però al recensore spetta forse il dovere di ammettere che bisogna corazzarsi bene, essere ben svegli, per guardare e apprezzare quel che c’è da apprezzare in questo film di Malick e da lui stesso scritto. Due anni in sala di montaggio. Costruzione di un mito o testimonianza di difficoltà nella realizzazione?Ancora una volta, la critica si è divisa; si è parlato di capolavoro come di prova di presunzione fine a se stessa, di scarso contenuto. Recensire un film dell’autore statunitense (nato nel 1943, laureato a Harvard in filosofia, vincitore a Berlino 1999 per La sottile linea rossa e a Cannes 2011 per The tree of Life) è, davvero, impresa difficile. Lo è anche per questo (il suo penultimo) Knight of Cups: opera pregevole, come sempre, per l’aspetto visivo, di meno per quanto essa intende trasmettere sul piano concettuale e della riflessione. La sensibilità, o l’attrazione, dell’autore per la natura cosmica ha agio di manifestarsi in scene come quella iniziale, di un sole pallido al tramonto in un panorama semilunare interrotto da alcune superfici lacustri, oppure nei paesaggi illuminati dal sole e battuti dal vento (alcuni carrelli dall’alto sono particolarmente suggestivi), nei bagliori finti, elettrici, di astronomie kubrickiane. L’ultimo film di Malick (Voyage of Time), ancora non uscito in Italia, dovrebbe portarci a contatto con una dimensione spazio-temporale ancora più estesa, in forma documentaristica. Dal Big Bang in poi! Ma questo lo vedremo. C’è infine il continuo ricorso alla rappresentazione dell’acqua e del muoversi vorticosamente sotto l’acqua (spesso però artificiale, quella delle piscine), con finalità chiaramente metaforiche: è la strada turbinosa dal basso verso l’alto, dal buio alla luce. Non saprei dire se ci sia anche qualche senso religioso in tutto questo.
La trama è pressoché inesistente, o quantomeno scontornata, frammentaria (un ordine insufficiente è dato dalla divisione in capitoli, si veda oltre). Rick (Christian Bale) è uno sceneggiatore californiano alla ricerca di se stesso, di un rapporto col padre, con le donne, ma appunto con la vita in generale. Ha perso un fratello, è stato sposato. Spaurito, irrequieto, infelice. Un ricco depresso, tra ricchi spesso depressi anche loro. Può darsi che percepisca il vuoto di quello che fa e della gente che frequenta. Ma il volto dell’attore è francamente inespressivo, più che sofferto o riflessivo. Forse è voluto anche questo. Spostarsi, come fa tra Los Angeles e Las Vegas e altrove, non gli serve, il viaggio è un dato illusorio giacché la felicità, o non infelicità, non dipende dal luogo dove si trova o dall’esperienza del movimento. Non è certo questo un messaggio nuovo. Come minimo era già nell’epistolario del filosofo stoico e precettore del primo Nerone, Lucio Anneo Seneca. I monologhi fuori campo accompagnano o dovrebbero accompagnare lo spettatore a una migliore comprensione. La donna è essenziale nel film: il protagonista incontra e cerca sollievo nelle donne, tutte di una bellezza e carnalità eclatante, così come sono splendidi gli interni dotati di arredi e design eleganti e sontuosi dove si svolgono gli incontri amorosi. Solo alla fine accade qualcosa di inedito e forse di appagante. Nel Cavaliere di coppe (un riferimento ai tarocchi, e dunque anche alla casualità o alle metabolai della vita, così come ai tarocchi si ricollegano sette degli otto capitoli tematici nei quali è diviso il film) c’è dell’Antonioni; non si vede come possa essere accostato a Otto e mezzo di Fellini, come invece è stato ritenuto da una parte della critica. Il progetto nel complesso non è condotto con mano così felice, quella che si riconosce dal livello di emotività che riesce a suscitare. Piccole parti hanno in quest’opera complessa ma parzialmente deludente Kate Blanchett e Antonio Banderas. Fotografia, notevole, di Emmanuel Lubezki vincitore di Oscar negli ultimi anni.
Peter Bradshaw sul Guardian ha scritto: «Ci sono momenti di brillantezza visiva, momenti ammirevoli e pure di grandeur. Malick è sempre Malick, e tutto quello che fa merita interesse. Ma il suo stile è ormai stagnante e sta diventando manierismo, cliché e auto-parodia» (https://www.theguardian.com/film/2015/feb/08/knight-of-cups-review-film-terrence-malick-christian-bale). Sarei un po’ meno severo, ma non sembra un giudizio fallace.