“È solo la fine del mondo” (“Juste la fin du monde” di X. Dolan, CAN 2016)
Si parla di Xavier Dolan, il regista del Quebec (nato a Montreal nel 1989), ormai di culto presso tanti giovani cinefili americani e europei, e si impiega spesso il termine “talento”. Quando un ragazzo di diciotto anni sia pure basandosi sul proprio vissuto sfodera un film come J’ai tué ma mère e poi Mommy (2014, recensito anche per questo blog) e tra i due Lawrence Anyways (2012, da molti considerato il suo lavoro più coinvolgente e riuscito) ebbene tale riferimento alla vocazione per il cinema è ben comprensibile. Il talento di Dolan non è però edificato solo su un linguaggio filmico originale, dotato di qualche particolarità estetica caratterizzante. Per Dolan, che certo sa usare la mdp, al di là degli espedienti tecnici (come in Mommy il formato) conta innanzitutto la testimonianza e l’emozione, e trasmetterle gli riesce facile.
Bellissima la prima scena scena di questo film, giocata su un montaggio alternato ricercato ma funzionale nella sua propedeucità, con un pezzo musicale trascinante ad accompagnarlo (Home Is Where It Hurts di Camille): è il viaggio di Louis (Gaspard Ulliel), autore di teatro che torna a casa per rompere lunghissimi vuoti di comunicazione e soprattutto per dare una notizia. Louis non vede i suoi da dodici anni e troverà il fratello Antoine (Vincent Cassel), la mamma sessantenne Martine (Nathalie Baye; la figura materna verso la quale il protagonista-autore sembra guardare con più indulgenza del solito), la sorella Suzanne ormai cresciuta. Tra le mura domestiche lo aspettano tutti con ansia (anche se con atteggiamenti e aspettative differenziate): anche la cognata Catherine (Marion Cotillard), con la quale sembra instaurarsi da subito una speciale tacita complicità. Legami allentati e ferite interiori, che non basta essere lì per un giorno a rimarginare e che anzi rischiano di risanguinare. Ma per gran parte il film è giocato sul tempo di un’attesa: l’attesa del momento in cui Louis dovrà spiegare le ragioni di questo viaggio, di questo ritorno. La rivelazione della notizia terribile della sua malattia.
Sarebbe riduttivo considerare E’ solo la fine del mondo solo una storia delle dinamiche dure, aspre, che si scatenano all’interno di una famiglia, e del rapporto tra passato e presente dei singoli personaggi, con ciascuno dei quali Louis stabilisce separatamente un dialogo rinnovato, sofferto, che deve tener conto di tante cose che non sono dette e di un protratto periodo di mancati contatti. Louis ritrova non senza turbamento ma neppure sorpreso tutto quello che aveva cercato di fuggire andandosene via ventenne, ma coglie anche novità, cambiamenti, così come è sollecitato nei ricordi felici dell’infanzia, in quelli della esperienza sessuale con un amico, nel desiderio di rivedere la casa dove la famiglia aveva vissuto in tempi lontani. Molto suggestivo e reso con efficacia è il momento del suo arrivo, i primi minuti: le profonde tensioni familiari si rivelano subito, ma Louis le accetta, le smussa, senza però arrivare a ricreare un nuovo equilibrio, per quanto transitorio. La sua trasferta è dettata anche dalla motivazione di regalare ai suoi uno spicchio residuale e l’ultimo della sua presenza. Riuscirà a dire, in che momento, con quali parole, ai suoi della propria malattia? Può permettersi di trasformare una giornata come quella in una occasione di trauma, di dolore? Quando sembra decidersi c’è sempre qualcuno o qualcosa che lo impedisce, per caso o deliberatamente, quasi intuendone le intenzioni.
Questo film di Dolan, tratto da una pièce degli anni ’90 del canadese Jean-Luc Lagarce, è forse più complesso dei suoi precedenti, nel senso che gli elementi umani e le tematiche messe in gioco (mediante un impasto di parole, di silenzi e sguardi, persino di offese o di scatti d”ira) sono molteplici e si intrecciano con una finezza che non è ostacolata da un esito di apparente mancata compiutezza. Né Ulliel né la Cotillard sono perfetti (sovrabbondante l’uso di primi piani enfatizzanti, anche se difficilmente di questa scelta tecnico-stilistica un film simile avrebbe potuto fare a meno: e dunque è davvero agli attori che si deve la responsabilità di una mimica a tratti fuori misura), eccellenti e meglio guidati dal regista le maschere di Cassel e della Baye, l’uno sino ai limiti dell’animalesco, l’altra molto brava nel rendere l’eccentricità, la sofferenza dissimulata, e l’amore materno. Il film ha vinto il Gran Prix della giuria nell’ultimo festival di Cannes. Un bel mélo, uno straziante dramma degli affetti (sino a quasi connotarsi come thriller psicologico), aperto a interpretazione diverse. L’epilogo del film va tutto letto e integrato alla luce di ciò che Dolan non mostra: il breve tragitto di ritorno di Louis con suo fratello, dalla città dove si è fatto una commissione, a casa. Non possiamo dire di più.