“Silence” (M. Scorsese, USA-JPN-TAIWAN 2016)
Nel 1963 Ingmar Bergman ci regalava uno dei suoi film più belli (e meno noti): Il silenzio (Tystnaden). Lì il silenzio è, insieme alla consueta impossibilità di comunicare tra esseri umani, quello, anch’esso consueto nel maestro svedese, di Dio: una scena di carrarmati in movimento lascia credere legato ai lutti e alle sofferenze che la guerra infligge all’umanità e che un Dio di infinita bontà non dovrebbe consentire.
Opera dallo stesso titolo, lungamente meditata e tratta dal romanzo storico omonimo di Shusaku Endo, questa ultima di Scorsese si sviluppa in modo avvolgente, ieratico, evitando drammatizzazioni e concessioni al pulp, e ci induce a riflettere su molti dati universali. I 160 minuti passano in sala senza provocare nessun tipo di stanchezza. L’ambientazione è il Giappone della prima metà del XVII secolo, all’epoca dello shogunato Tokugawa (lo shogun era un titolo tendenzialmente ereditario attribuito a un grande capo militare giapponese nominato dall’imperatore: l’èra Tokugawa, dal nome del suo primo di quindici esponenti, iniziò nel 1603 e si concluse nel 1868). Allora, a partire dal centro di Nagasaki (sebbene la capitale fosse Edo, futura Tokyo) si procede a un violento e sistematico rigetto del cristianesimo, che si era impiantato in modo notevole nei decenni precedenti. I missionari gesuiti portoghesi non rinunciano, ma le loro iniziative finiranno impietosamente sconfitte dalla reazione degli inquisitori buddisti. I temi di riflessioni sono molteplici: la difficoltà di comunicare con Dio (un Dio che di nuovo con la sua imperscrutabile provvidenza lascia che accadano cose orribili), la fede, naturalmente, e il significato della conversione; la persecuzione e il suo esito estremo, il martirio (a un certo punto si ricorda senza menzionarne l’autore una celebre sentenza di Tertulliano: semen est sanguis christianorum, la propagazione del cristianesimo è assicurata dal sangue dei suoi fedeli); il misticismo e l’allucinazione; la tolleranza religiosa; il rapporto tra culture: quelle europee e quella orientale giapponese; la legittimità del proselitismo; l’impossibilità che il cristianesimo sia integrato in una realtà etnica e culturale che sembra votata all’isolamento (e con esso ad una inevitabile ambiguità del cristianesimo abbracciato, un cristianesimo paganeggiante, animistico, legato alla teologia solare); l’alternativa tra compromesso o estremizzazione delle scelte da parte dei missionari, un’estremizzazione che mette però a rischio i propri innocenti seguaci causando loro sofferenza e morte.
Direzione molto suggestiva, per immagini di spettacoli naturali e ricostruzioni antropologicamente efficaci della vita dei villaggi e delle comunità cristiane perseguitate, nascoste tra bui cunicoli rocciosi e chiese rupestri. Belle anche alcune scene di tortura e messe a morte di cristiani da parte delle autorità, con qualche concessione di troppo, forse, a tentativi di smussare la situazione con tratti ironici. Certo questo Scorsese è lontano dai soggetti che lo hanno reso celebre presso il grande pubblico. Ma Scorsese è anche autore de L’ultima tentazione di Cristo (1988) e Kundun (1997). Eccellenti le interpretazioni di Liam Neeson (Ferreira, il missionario che per primo accetta di rinunciare formalmente all’opera evangelizzatrice ma eventualmente per agire come criptocristiano dall’interno della società straniera), Andrew Garfield (padre Sebastiao Rodrigues, il protagonista), Adam Driver (padre Francisco Garupe).
Per un approfondimento si suggerisce di leggere una ampia intervista a Scorsese di A. Spadaro, ne La civiltà cattolica del 9 dicembre 2016: http://www.laciviltacattolica.it/articolo/silence-intervista-a-martin-scorsese/