RETROSPEZIONI: “Where Danger Lives” (J. Farrow, USA 1950)
La modesta offerta delle sale in queste settimane, in attesa dell’arrivo di Manchester by the Sea di K. Lonergan, induce a suggerire una visione antica di un noir (e “on the road” ante litteram) di buon fascino. Autore ne è un regista meno noto del cinema americano, nato a Sidney in questi giorni del 1904 (il 10 febbraio) e deceduto nel 1963: John Farrow. Di buona famiglia, di capacità eclettiche (avrà al suo attivo un dizionario inglese-francese-tahitiano), giovinotto avventurosissimo, ebbe precoci contatti con Hollywood in quanto scrittore ed esperto di navigazione e marina. Si avvicinò a quanto sembra alla scrittura per lo schermo proprio a seguito di un viaggio nei mari del sud col grande documentarista Robert Flaherty. Dopo alcune collaborazioni per film di guerra, diventerà un autore prolifico. I legami con Hollywood si intensificarono anche grazie al matrimonio con Maureen O’Hara. Ne ebbe sette figli, tra i quali la notissima attrice Mia. Incuriosito dai tecnicismi e i virtuosismi della macchina da presa (come ricorda Christian Viviani), diresse pellicole interessanti come The Big Clock (Il tempo si è fermato, con Charles Laughton, Ray Milland, Maureen O’ Sullivan e la celebre caratterista Elsa Lanchester) del 1948 o Alias Nick Beale (La notte ha mille occhi) del 1949. All’anno successivo risale questo nostro Where Danger Lives (in italiano Una rosa bianca per Giulia). Storia certamente anomala e a tratti poco credibile. Lo stimato Dr. Jeff Cameron lavora in un ospedale di San Francisco occupandosi prevalentemente del reparto pediatrico. Un’emergenza che gli viene sottoposta mentre è fuori servizio è quella di una donna che ha tentato un suicidio, Margo (Faith Domergue). La donna una volta ripresasi cerca di conoscerlo meglio, se ne infatua e anzi perde la testa per il medico al quale chiede senza mezzi termini ma anche un po’ misteriosamente aiuto per la sua situazione personale. Di lì a poco nasce la fuga di due amanti che non si saprebbe se definire criminali, se non legalmente: sono inseguiti dalla polizia statunitense a seguito dell’omicidio (preterinzionale?) del marito di Margo. C’è anche il sospetto che la donna abbia per così dire “completato” l’uccisione del marito Frederick Lannington (un mefistofelico Claude Rains) che aveva ricevuto un violento pugno da Jeff; un completamento che potrebbe essere avvenuto mentre Jeff era in bagno a lavarsi la testa ferita dopo aver subito l’aggressione a colpi di bastone da Frederick. La direzione della fuga è naturalmente il Messico. Le scene, quasi tutte in notturna, tra motel, strade desolate e ambienti paradossali, portano anche traccia di tradimenti inattesi. Ha ragione Renato Venturelli (che dedica a Farrow alcune pagine nel suo L’età del noir, Torino 2007, pp. 327-333): si tratta di un film memorabile anche “per il suo finale delirante… durante una lunga notte d’attesa in una squallida stanzetta d’albergo illuminata dai neon intermittenti della strada”. Lui è un Robert Mitchum straordinario, con una acconciatura a banana degna dei primi rock’n roller, dalla mimica facciale deformata, patologica, e a momenti quasi animalesca, che anticipa la sua stessa maschera ne La morte corre sul fiume di Laughton.