Bellocchio parla a Firenze del suo “Fai bei sogni” (Ita-Fra 2016)
Introdotto da Claudio Carabba, un Marco Bellocchio straordinariamente giovanile (il regista piacentino ha 77 anni e ne dimostra quindici di meno) ha presenziato e presentato allo Spazio Alfieri di Firenze la prima proiezione della rassegna Segnalati dalla critica, una scelta di sette film tra i più interessanti dell’anno, ogni martedì sera dal 14 marzo per le settimane a venire. La inaugurazione della serie è stata affidata infatti al suo Fai bei sogni. Bellocchio ha parlato liberamente del cinema, della sua attenzione ai cambiamenti della società e di quelli della propria personale lunga esperienza di vita e di artista (vocabolo da lui stesso impiegato con qualche ritrosia). Modesto e autoironico ma sempre ricco di vis polemica non ha esitato a reagire agli interventi degli spettatori e a placare diplomaticamente la osservazione di un solone in prima fila che attaccava come possibile elemento di corruzione del libero arbitrio la presentazione del film (che a suo dire avrebbe dovuto essere discusso casomai dopo la proiezione: può darsi…). Utili le considerazioni di Bellocchio sul filo rosso costituito per il suo cinema dal rapporto figlio/madre e dal tema della “uccisione-perdita della madre” nel confronto da lui istituito tra I pugni in tasca (opera prima e insuperato capolavoro, ancora oggi pieno di vitalità, come ammesso dal cineasta medesimo con malcelato orgoglio) e il film in visione. Bellocchio ha anche ricordato con sincerità i suoi dubbi sulla opportunità di mettere mano al romanzo autobiografico (del 2012) di Massimo Gramellini, nelle vesti di scrittore non amatissimo dal mondo letterario con la puzza sotto il naso, e ne ha menzionato altresì l’assoluto rispetto per l’autonomia del regista, tanto da non recarsi mai sul set né in sala di montaggio, limitandosi a vedere e apprezzare la riduzione cinematografica di Fai bei sogni.
Il film deve molto alla recitazione di Valerio Mastandea, Bérénice Bejo, Guido Caprino, Dario Del Pero, Barbara Ronchi, la intensa, spigolosa ma seducente madre del piccolo Massimo e ha visto la partecipazione in brevi scene di altri attori di richiamo come Fabrizio Gifuni. Non disturba la solita fotografia un po’ fredda che non teme di dare il senso della finzione quasi televisiva all’opera. Esso punta sul contenuto e in tal senso salvo poche scene quasi superflue (forse si trovavano nel romanzo) e comunque distoniche è piaciuto a chi scrive. Il titolo corrisponde alle ultime parole dette a un bambino di nove anni dalla madre gravemente malata, baciandolo mentre dorme. Centrali sono il motivo della perdita di un essere amato e ammirato come qui la propria mamma e le “strategie” di attenuazione del dolore del protagonista nelle varie fasi della sua vita: Massimo adulto è interpretato da Valerio Mastrandrea, Elisa, la donna della sua vita, dalla Bejo. Lo sfondo, molto evocativo e ben ricostruito, è la Torino degli anni Sessanta, inizialmente, e poi quella assai mutata degli anni Novanta (un mutamento colto in modo emblematico dalla terrazza della casa di Massimo, proprio davanti al vecchio Stadio Comunale di Torino dove si giocavano mirabili e e emozionanti derby torinesi, poi dismesso a favore del Delle Alpi). E’, insomma, la storia di un orfano, dapprima di un orfano incredulo che chiede istintivamente aiuto a Belfagor (la serie televisiva sul fantasma del Louvre, trasmessa in Italia nel 1966 e le cui puntate vedeva sul divano insieme a sua madre, entrambi impauriti) e poi di un orfano adulto (dai rapporti distaccati con un padre troppo distante) e che, tra l’altro, si interroga fino ai suoi quarantatre anni su come sia morta davvero sua madre. Quando lo saprà la rabbia si mescolerà a sentimenti più tenui e probabilmente di tipo consolatorio.