Ggassan Kanafani, Uomini sotto il sole, Edizioni Lavoro 2016, pag. 90, € 13,00. Introduzione e traduzione di Isabella Camera d’Afflitto
Pubblicato nel 1963 a quindici anni dalla proclamazione dello Stato di Israele, dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani (Acri 1936- Birut 1972) vittima a 36 anni di un attentato a Beirut ad opera dei servizi segreti israeliani, Uomini sotto il sole è stato tradotto in Italiano nel 1984 da Isabella Camera d’Afflitto in un periodo in cui, dice lei stessa nella prefazione, il romanzo appariva rivoluzionario, “soprattutto perché per la prima volta in Italia si parlava non solo di letteratura araba, ma addirittura di letteratura palestinese, e per la prima volta ancora, si parlava così apertamente della tragedia palestinese fino ad allora considerata a dir poco un tabù e della quale si ignorava completamente la portata”. Traduzione sponsorizzata allora dall’OLP e dunque considerata una operazione politica, più che culturale. Trascorsi gli anni, ancora aperta la situazione arabo-israeliana ma in “un clima cambiato a livello internazionale e nazionale”, l’opera di Kanafani si impone per il suo valore letterario e acquista voce per tutti i fuggiaschi e i migranti da terre di dolore, di persecuzioni, di mancanza di libertà, di indigenza estrema. Il romanzo è uscito anche per l’Editore Sellerio nel 1991.
E’ la storia apparentemente semplice di tre palestinesi, due giovani ed un uomo più anziano, che cercano di fuggire dai campi profughi della Cisgiordania, quelli sorti dopo la perdita della Palestina nel 1948, per arrivare in Kuwait attraverso il deserto iracheno.
Ci si affida a trafficanti che vogliono essere pagati prima della partenza, che aspettano di raggiungere il numero giusto e sufficientemente remunerativo per partire, che non garantiscono niente, che forse lasceranno i fuggiaschi da soli, prima ancora di portarli al sicuro oltre confine.
Abu Qais, Assad e Maruàn non hanno sufficienti dinari da pagare al grassone “proprietario dell’ufficio che si occupava di far entrare clandestinamente le persone da Bassora nel Kuwait”; cercano di tirare sul prezzo, ma soprattutto cercano garanzie che il mercante di uomini non può dare. Non è senza dolore che hanno deciso di partire, spinti dalla considerazione che sono già trascorsi troppi anni da che hanno perso casa, terra, ulivi, mentre niente accenna a cambiare e si prospetta un futuro di miseria, senzapatria.
Sono avvicinati allora da un camionista, Canna, esperto perché fa quel tragitto regolarmente per un commerciante: “Il camion non è mio…Io sono povero, più povero di tutti voi, e ho a che fare con quel camion soltanto perché lo guido. Il padrone è ricco e conosciuto, perciò il camion non si ferma a lungo alla frontiera e non viene perquisito”. E’ un uomo dal passato drammatico che cerca di guadagnare qualcosa per cambiare vita. Non vuole soldi in partenza. Loro dovranno tuttavia entrare in una cisterna vuota prima di ogni controllo di dogana. Ci vorranno pochi minuti per espletare le solite formalità, poi di nuovo via veloci, fuori dalla cisterna, fino al successivo controllo.
E’ una esperienza più forte di quella che i tre si sarebbero aspettati: la cisterna chiusa è un pozzo di fuoco infernale sotto il sole del deserto. Purtroppo le formalità talvolta durano più del solito, soprattutto se gli impiegati hanno voglia di scherzare con Canna. E lui non può tradire la sua impazienza.
Il dramma in atto si intuisce. Non è diverso da quello di tanti fuggiaschi che cercano di approdare sulle nostre coste. Sappiamo dei lunghi viaggi in zone desertiche, di ricatti e violenze, di morte per sfinimento, dei nascondigli più incredibili per attraversare le frontiere, di stupri. Conosciamo le fughe su imbarcazioni fatiscenti, gli abbandoni da parte degli scafisti, la morte in mare. L’area di fuga oggi è molto ampia, contiene tutto il Medio Oriente, il cuore dell’Africa, si estende al confine Messico- Usa. Per citare solo le zone di cui si parla più spesso. I media non arrivano sempre dappertutto a fissare le immagini.
La prima volta i tre rimangono nella cisterna sette minuti e ne escono in condizioni pietose, terrorizzati all’idea di doverci ritornare. Canna apre la cisterna dopo il secondo controllo: “quando le mani toccarono il rivestimento metallico, lo sentì bruciare e non riuscì a tenervele”. Finalmente riesce ad aprire ma nessuno risponde dal fondo buio, e quando scende per aiutare è tardi, e lui stesso rischia di morire in quell’inferno.
Canna non è cattivo, conosce i rischi del percorso ma si fida dell’esperienza. Tutto doveva filare liscio, con i soliti tempi di sosta. Il destino non lo ha voluto. Rimane il suo grido al deserto che gli rimanda l’eco: “Perché non avete bussato alle pareti della cisterna? Perché?”
Kanafani lascia al lettore la risposta.