21 Novembre 2024
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Claudia Di Palma, Altissima miseria, Musicaos Editore 2016 pag. 88, € 13,00.

Divisa in quattro sezioni Altissima miseria, la raccolta di Claudia Di Palma, giovane poetessa pugliese, deve il titolo all’ultima sezione, dove si esprime pietosa comprensione del dolore di Dio, “misero e perso Dio”, sconvolto dal decadimento del suo progetto di creazione (“ma posso solo immaginare/male immaginare il dolore di Dio”) creazione che gli ritorna in un processo che sovverte l’atto “ti accolgo,/ti restituisco il dono della creazione/ e soffiando ti do sostanza” .

Poesia ossimorica e carica di contrasti, ombra/luce, dentro/fuori, vita/morte, che segnano la soglia, il limen, il margine di precarietà, il trapasso, il confine labile su cui si potrebbero fare scelte tra esistere e non esistere, nella consapevolezza che Dio “è una bocca aperta”: un Creatore che accoglie ma allo stesso tempo può fagocitare. La precarietà della condizione umana chiede tenerezza.

Bisognerebbe rovesciare le “idiote logiche degli uomini”, rovesciare il mondo come si fa con le tasche, ora che “degli uomini si fanno numeri” e la carne è tradotta “in un codice fiscale”. C’è il richiamo ad un mondo più umano dove le parole riprendano la loro autenticità e il loro valore, dove si torni a guardarci negli occhi e ad ospitare le differenze. In fin dei conti siamo tutti in esilio in questa vita, ed anche il vento è profugo: “Sono una guerra infinita/piena di sangue/ e strazi per ogni respiro./ C’è un centro di accoglienza/per il vento profugo”. Il tempo ci consuma: “marciamo/di un bellissimo marcire”, “la vita è assenza. Siamo pregni di ciò che ci esclude”, la vita “è ciò che non abbiamo notato”.

Poesia che trabocca dolore, frequenti sono i significanti come il solco, il varco, la voragine, il baratro, il rifugio, il buco, il vuoto, la fessura, e ancora: spalancare il grembo, aprire il petto. Ma anche poesia femminile, perché il grembo riporta alla madre, senza dimenticare “l’ombra/utero che raccoglie e sprigiona la luce, che confina/ e sovverte”. Espressioni della femminilità e della fertilità, dell’essere madre per ogni donna, anche in assenza di figli, in un rimando alla fisicità ed alla fusione dei corpi, nell’atto creativo che è principio del mondo. Ma anche al bisogno di accoglienza, di un rifugio sicuro e caldo, nella “metratura di braccia” che accolgono, e dentro “gli scavi delle tue pupille/che non finiscono”.

La parola amore contiene la resa, la sconfitta di ogni resistenza, “cela tenera il massacro”, ma allo stesso tempo la forza che restituisce vita al cuore e immerge nell’assoluto. E’ la forza che ci salva, insieme alla parola, alla scrittura, “luogo stupendo della mia resa”, briciole spezzate di parole, che portano fuori dal silenzio e dall’isolamento, che aprono alla comunicazione. Fondamentale rimane infatti la comunicazione, così come il sorriso, ché ci mettono in sintonia con gli altri, ed è indispensabile realizzarla questa comunione, visto che siamo destinati a dissolverci “in quella grande/bandiera bianca/ che spesso chiamiamo luce”.

Importante allora è riprenderci la parola, farla circolare, usarla con amore, perché si senta di nuovo viva e determinante: “Ignoto/è la parola d’ordine, e rischio./ Togliere la proprietà privata/dalle parole, occuparle, accarezzarle/ come onde gravitazionali e/stropicciarle, scoperchiarle,/non metterle in nessuna teca/di vetro, in nessuna campana”.

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.