Woody Allen e il senso della vita : “La ruota delle meraviglie” (USA 2017)
Woody Allen è nato a New York l’1 dicembre del 1935. Questo ultimo film, dove A. non ripete se stesso, l’ha scritto e girato più che ottantenne. E, a parte gli aspetti tecnici e formali, a questa tenera età dimostra una sensibilità di tratto, una percezione del senso tragico dell’esistenza ma anche della sua bellezza, una vitale capacità di dare spazio all’amore (e al ruolo multiforme dell’amore carnale) che sorprendono per intensità. Il titolo è metaforico e anche antifrastico: Wonder Wheel – la ruota delle meraviglie: nasce dalla presenza sullo sfondo di molte scene di una ruota panoramica del luna-park di Coney Island, nei cui anfratti e nei cui scantinati, tra sporcizie e miserie materiali e umane è ambientato il film; titolo antifrastico perché sono in definitiva le mestizie e le brutture dell’esistenza, piuttosto che le sue meraviglie, a farla da padrona.
Siamo negli anni Cinquanta, e la quarantenne Ginny (una brava e attraente Kate Winslet) si è rifugiata in seconde nozze – quei matrimoni che non si capisce come nascano – con il rozzo e prepotente giostraio Humpty (Jim Belushi), ex-alcolizzato. Lavora come cameriera in un ristorante di pesce, tutt’altro che elegante. I due vivono in una sorta di appartamento-baracca, al limite della decenza insieme al figlio di lei, un ragazzino cinefilo e piromane che con le sue prodezze regala qualche scampolo di sorriso divertito, ma amaro se si riflette sulle origini e le implicazioni psicologiche della sua devianza. Al nucleo si aggiunge la figlia ventenne di Humpty, Carolina (Juno Temple), che si è voluta sposare con un malavitoso e poi è da lui fuggita, braccata dai suoi scagnozzi. L’insoddisfazione di Ginny la rende fragile. E’ incapace di resistere alle lusinghe della corte del bagnino Mickey (Justin Timberlake, a sua volta bravissimo), ne è attratta fisicamente e ne riceve anche stimoli intellettuali: Mickey si occupa di letteratura e teatro e valorizza questo versante della personalità di Ginny. Era stata attrice, sia pure modesta, e in qualche modo si illude di tornare a calcare le scene. L’incontro di Carolina con Mickey e alcuni ulteriori sviluppi determinano lo sgretolamento dei nuovi instabili assetti (sgretolamento rappresentato da un improbabile vestito indossato disperatamente da Ginny verso la fine), dando all’intreccio un andamento circolare che riconduce al grigiore infelice della situazione iniziale.
Ancora un lavoro pessimista di Allen, non diversamente dalla maggior parte della sua produzione recente, e il migliore dopo Blue Jasmine (2013). Gelosia, rimorso e sensi di colpa, solitudine, violenza, problemi del quotidiano, rapporti tra genitori e figli e dinamiche coniugali sono tutti motivi messi in scena con finezza, così come magistrale è la direzione degli attori e delle loro maschere. I pastellati e chiaroscurati cromatismi tendenti al rosso tramonto della fotografia di Vittorio Storaro sono rimarchevoli, vividi, per quanto tipici del genere American Graffiti. Un’opera anche molto teatrale, per la cura dei dialoghi e le lunghe e insistite riprese della casa buia, setacciata con una varietà di inquadrature, della sgangherata famiglia che sta al centro della storia; ma da set teatrale e da allestimento da studio sembrano (sono?) anche le luminose spiagge della brooklyniana Coney Island e il quartiere del parco giochi. Eugene O’ Neill è citato espressamente e potrebbe avere influenzato Wonder Wheel. Un bel film.