“Poesía sin fin” (A. Jodorowski, CHI-FRA 2016)
Alejandro Jodorowski è da lunghissimo tempo autore “di culto” per gli appassionati di cinema, almeno per tre opere (delle nove direzioni messe in cantiere in totale, con lunghe fasi di inattività) già dallo stile caratteristico, ossia immaginifico, grottesco, surreale, sanguigno: Il paese incantato (1968), El Topo (1970), La montagna sacra (1973). “Purtroppo” ricordiamo bene, anche se allora si era ragazzini cinefili, come pochi anni dopo almeno gli ultimi due film menzionati fossero spesso in programmazione all’Universale e in altri cinema d’essai nella Firenze degli anni ’70. Vitalissimo ed eclettico – oltre che cineasta ed attore, fumettista, regista teatrale, psicanalista autodidatta e reinventore di tarocchi – l’ultraottantenne autore cileno recita e dirige, con questo Poesía sin fin, dove si prosegue il discorso de La danza de la realidad (2013), un’autobiografia che non ha in alcun modo il sapore del testamento artistico, ma che suona piuttosto come un elogio della poesia nelle sue proteiformi e più inattese manifestazioni, prive di confini legate ai generi o alle forme espressive. Poesia non è solo letteratura o arte, ma è qualcosa di ben più grande e profondo.
Siamo dinanzi a un film di notevole impatto visivo (e ciò non stupisce), di escogitazioni magiche e simboliche talvolta incomprensibili, ma quel che conta è che emerge una rara forza di trasmettere sentimenti ed emozioni.
A Santiago, il giovane Alejandro (Jodorowski anziano è una sorta di genius di se stesso, i figli Brontis e Adan lo incarnano altrimenti) desidera diventare poeta. Rifiuta le costrizioni familiari – entrando in conflitto col padre autoritario che lo vorrebbe medico, mentre violinista lo vorrebbe la madre Sara (Pamela Flores), una specie di Dea della fertilità, che si esprime solo cantando a petto in fuori in qualunque situazione (la madre di J. era in effetti cantante d’opera N.B.). E così si avventura nel mondo dell’arte e della cultura indipendente. Garcia Lorca lo ispirava fin dalla sua gioventù e Nicanor Parra è un suo modello. Il paesaggio umano che circonda Alejandro è fatto da personaggi estremi e al limite del freak, devianti, fini letterati, ciarlatani. Il mondo che Jodorowski stesso probabilmente ha conosciuto e amato nella sua lunga vita. La sessualità, rappresentata in forme esorbitanti e paradossali, è centrale nell’estetica anche di questo film (vi accenna Jodorowski in una breve ma interessante conversazione con Roxane Gilmour, dove si parla anche di psicomagia e psicanalisi: http://www.artediessere.net/jodorowsky-cosi-io-vedo-il-sesso/). La poesia, come vocazione più o meno legittima e come vera natura, e forse anche come semplice scelta di vivere secondo istinto e coscienza, avvolge tutto e a tutto sembra dare un senso, dando valore all’esistenza pur irta di difficoltà, di durezze, di separazioni.