“Dogman” (M. Garrone, ITA 2018)
Fiction crudamente realistica, priva di almeno espliciti giudizi sociologici, è tratta con vari cambiamenti da un famoso fatto di cronaca di circa trenta anni fa, quello del Canaro della Magliana. La rappresentazione è basata su un linguaggio stilizzato, visionario, con immagini di grottesco tipiche: l’ultima opera di Matteo Garrone, per certo uno degli autori più vitali dell’attuale cinema italiano, può atterrire, ed è per stomaci forti.
Marcello (Marcello Fonte) è un piccoletto trentenne, dall’aspetto dimesso, bruttarello. E’ separato, con una figlia quasi adolescente che gli vuole bene. Marcello non è un buon’uomo né un uomo intelligente, non fa tenerezza; è un cuore semplice, un povero cristo, incastrato in una situazione da gironi infernali, come vedremo subito. Merita rispetto per aver messo su una attività di lavaggio per cani, alla quale tiene molto. La prima scena mostra un pitbull terribilmente digrignante e tanto potente da dover essere legato al muro con una catena al collo, mentre è sottoposto a una complicata tolettatura. L’apostrofe “amore”, pronunciata da Marcello con tono quasi biascicato, con frequenza nella prima parte del film, è riferita soprattutto agli animali. Ma c’è qualcosa che la fa percepire da subito come oscura, minacciosa, quasi come un’avvisaglia di una situazione opposta. Non è certo l’amore il sentimento che prevarrà nel film, sebbene qua e là ci sia anche qualche scampolo d’amore. Non siamo né in città né in campagna, ma piuttosto in una landa periferica desolata (dove se non le pistole i rapporti di forza bruta dettano legge). Questo posto è spesso inquadrato con campi lunghi che ne danno un’impressione vagamente da villaggio del Far West, ma nuvoloso, non assolato, desertificato, non brulicante di vita: spazzatura, pozze d’acqua, pochi abitati, un bar dove una umanità in larga parte disgraziata si ritrova per bere e giocare alle macchinette mangiasoldi. Il nostro protagonista, che bene o male è inserito nel contesto del villaggio, spaccia droga all’insaputa di quasi tutti. Ne è anche un saltuario consumatore. Ciò che meglio di tutto la mano di Garrone costruisce a nostro avviso è il filo conduttore del film, ossia il rapporto tra Marcello e Simone (Edoardo Pesce), giocato su un’asimmetria fisica e morale impressionante; tale rapporto fatica a rompere gli argini, per una sorta di condiscendenza, di pena e soprattutto di vantaggio che Simone ricava da Marcello, in quanto questi gli procura la cocaina. Marcello si barcamena, è intimidito, ma è tra i pochi che si può permettere di muovere qualche obiezione dinanzi alle prepotenze di Simone. Simone è un energumeno dai tratti fisici truci, quasi animaleschi, del tutto corrispondenti alla violenza che esercita non solo su Marcello ma su tutti i locali, compiendo vessazioni di ogni tipo. Terrorizza senza ritegno, nessuno è in grado di frenarlo. Ogni volta che scorrazza con la sua motocicletta, o che entra nel bar o che pretende di entrare nel misero Dogman (il nome dell’esercizio dove Marcello cura i suoi cani) si teme che stia per accadere il peggio, e spesso accade. Nella sua escalation, Simone alla fine obbliga Marcello a consegnargli le chiavi del negozio per compiere un furto a danno di un amico e confinante, scassina la cassaforte e lo deruba di tutti i suoi averi. Marcello si fa un anno di carcere, senza osare rivelare il nome di Simone. Garrone non ci mostra nulla di ciò che accade in quell’anno in quella casa circondariale, ma al ritorno Marcello non è più lo stesso. Vuole fare i conti con Simone, vuole avere una parte del bottino. Non si può andare oltre nella sinossi, sebbene essa diventi prevedibile, in un finale impreziosito comunque da un tratto di umanità coerente col personaggio: il desiderio di Marcello di farsi riaccogliere nella degradata comunità che lo ha ormai emarginato dopo la galera, ritenendolo davvero il principale responsabile del reato, e dunque del tradimento dell’amico vittima del furto.
Girato nei pressi di Castel Volturno, anche con attori non professionisti tra i quali lo stesso Fonte, il film (che a noi per certe dinamiche ricorda Non è un paese per vecchi dei Coen, 2007) si distingue per un uso della macchina da presa e della fotografia (Nicolaj Bruel) molto efficaci nel restituire ambienti squallidi, claustrofobici, malati, senza speranza. Sono gli ambienti abbrutiti nei quali si svolge una storia dove vi è quasi indistinzione fisica oltreché psicologica tra uomini e bestie. L’implacabile abbattersi della violenza di Simone su chiunque non gli dia retta, l’attesa che ciò si verifichi, sono descritti con pathos ed entrano con forza nella coscienza dello spettatore che si cala nei panni dei malcapitati, in primis Marcello, spera che la scampino e sviluppa sentimenti di rabbia vendicativa ma impotente. Quando e come lo abbatteranno? Un elemento di leggiadria è regalato dalla ragazzina, la figlia di Marcello, educata e quasi sofisticata al confronto con la situazione nella quale cresce. Il mare nel quale figlia e padre si concedono dei momenti di felicità insieme è fuga dalla realtà ma le scene delle immersioni subacquee sono poco credibili anche perché contrastano troppo con le restanti dinamiche. Marcello Fonte ha ottenuto con questa (ottima, non diremmo eccezionale) interpretazione la Palma come migliore attore a Cannes.