Un Giappone così lontano, così vicino: “Shoplifters”(“万引き家族”, Hirokazu Kore’eda, JPN 2018)
Molti dei film di Y. Ozu (1903-1963), a parte il celeberrimo uso delle riprese con macchina ferma e cavalletto basso, sono caratterizzati per gli ambienti descritti e per i contenuti privilegiati dalla ricostruzione, attraverso i rapporti tra generazioni e le dinamiche delle famiglie naturali, di spaccati di una società giapponese assai diversa da quella attuale. L’influenza di Ozu su Kore’eda è forse giustamente accusata di essere in fondo una sovrainterpretazione, un’eredità apparente. Anche se le vicinanze pur solo apparenti hanno un loro valore. Ma manca per esempio nel film qui rievocato (e ci sembra meno rilevante in generale per il regista di questo Shoplifters) un elemento importante del cinema di Ozu: l’inserimento dei giovani nel sistema “borghese”, e nel mercato del lavoro, l’attenzione alla mobilità sociale ecc.
Con questo film che ha vinto a Cannes poche settimane fa, con una mano piuttosto leggera, Kore’eda (già autore tra gli altri nel 2013 di Father and Son, su tematiche analoghe) tratteggia lasciandoli intravedere solo in filigrana aspetti del Giappone odierno. L’approccio è originale: si tratta della rappresentazione della vita di un gruppo di famiglia costruito su parentele acquisite, con personaggi di diverso rango e attitudini, incentrato su legami affettivi e di protezione più che di sangue. Vi è una armonia in questo gruppo eterogeneo, che pure vive una esistenza al limite del decente, non foss’altro che per le condizioni igieniche e una disinvolta promiscuità che avrebbero destato forse la curiosità di Norbert Elias. Tutto sembra farsi nella casa e al suo esterno senza moralismi e senza paure: una varietà di comportamenti in teoria riprovevoli, tra i quali il furto sistematico con destrezza nei grandi magazzini; questa è l’unica cosa che il padre alla fine del film dichiara di aver potuto e saputo insegnare a suo figlio.
Questa piccola comunità un po’ emarginata sembra essere quella della periferia di una città qualunque del paese con capitale Tokyo (solo rare riprese di esterni lo denunciano). I protagonisti della pellicola sono numerosi: innanzitutto il locale, un sottosuolo o terratetto asfittico non esattamente elegante dove si svolgono la maggior parte delle scene; qui si mangiano risucchiando i noodles e nel farlo si emettono suoni disdicevoli per noi (ma a quanto pare si tratta di una prassi non rara per i giapponesi). Ma il pasto avviene mentre qualcuno si fa gli affari suoi, tra cartacce e sporcizia, mentre altri si tagliano le unghie dei piedi, e poi se ne vanno sputacchiando. Vi abita la famiglia (senza virgolette) degli Shibata, costituita da una nonna (Kirin Kiki), un padre (Lily Franky) e una madre, il loro figlio, di nome Shota, una ragazza più grande (che farà esperienza di prostituzione), una bambina strappata alle violenze domestiche dei genitori e vicini. L’aspetto davvero che più colpisce è l’equilibrio del contesto, un equilibrio che sarà rotto di fatto nella seconda parte della pellicola quando la bambina sarà ricercata dalle autorità e dai media, e quando per impedirle di essere acciuffata dai dipendenti del supermercato mentre educata al furto fa goffamente un gran rumore, Shota fugge apposta con un pacco di arance facendosi inseguire dai dipendenti, infine gettandosi rovinosamente da un muretto rompendosi una gamba.
Questione centrale di questo film tranquillo e asciutto, nonostante alcuni lati torbidi, e ben sceneggiato, è la domanda di cosa sia veramente una famiglia e di come si configuri il rapporto tra famiglia tradizionale e nuove forme di nuclei familiari, che in qualche modo si assemblano come strategia difensiva, per sopravvivere in condizioni meno peggiori di quanto i “modelli etici” consuetudinari e il mondo esterno che li impone non consentirebbe. Il discorso si potrebbe allargare probabilmente alle famiglie derivate da unioni civili e da unioni di fatto etero e omosessuali al confronto anche in questo caso con le famiglie tradizionali. Non è possibile fornire giudizi di valore, sembra implicare Kore’eda, stabilire gerarchie, imporre schemi preconcetti.