Stefano Tofani, Fiori a rovescio, Nutrimenti 2018, pagg. 199, 16 euro
Il mondo della disabilità, questo sconosciuto. Sconosciuto e pericolosissimo da trattare in letteratura. Troppo forte il pericolo di approssimazioni, o di non trovare l’equilibrio tra gli opposti del cinismo e del pietismo. Ci riesce invece, e bene, questo romanzo di Stefano Tofani, che alternando toni, voci e prospettive, tratta con leggerezza ma precisione la personalità e la parabola di un protagonista tetraplegico, narra una storia familiare, tratteggia la cronaca italiana degli ultimi decenni e restituisce un vivido spaccato di Toscana.
Ambientato a Cuzzole, immaginario ma più che realistico paese alle porte di Pisa, “Fiori a rovescio” mette in scena la vicenda della famiglia Toccafondi, a partire dalla nascita a pochi anni di distanza l’uno dall’altro dei figli Martino (nel 1980) e Enrico (nel 1984). Quest’ultimo ha la sventura di nascere il giorno di Natale, in un reparto ospedaliero disertato dai medici più esperti e affidato a un dottorino incapace di gestire le complicazioni del parto, che causa al neonato una grave disabilità permanente. Il racconto procede fino al giugno 2017 attraverso capitoli che riportano l’indicazione degli anni e in alcuni casi perfino dei giorni, ma attraverso numerosi flashback si raccontano anche le vicende pregresse dei genitori Ugo e Luciana. Una (quasi) normale storia italiana che inanella piccoli e grandi eventi, tragedie, misteri e colpi di scena, mentre sullo sfondo si sfogliano le pagine di cronaca dell’epoca, dalla morte di Berlinguer alla tragedia della stazione di Viareggio. Con la stessa libertà con cui si muove nel tempo, Tofani si sposta anche dentro e fuori dai personaggi, componendo un affresco corale attraverso le voci dei condomini dei Toccafondi, dei loro amici, dei frequentatori del bar “da Pancino” e di tanti altri che di volta in volta intersecano e commentano la vicenda della famiglia.
È proprio questa libertà di farsi prestare dai diversi caratteri le voci e i colori che di volta in volta gli servono che permette a Tofani di evitare i pericoli del tema. Il racconto mescola così patetico e sarcastico, ironico e elegiaco, umoristico e idilliaco, spesso nell’arco di poche righe, in piena sintonia con quello spirito del luogo toscano che è capace di trarre motivi di spietato umorismo anche dagli eventi più tragici e che tutto sottopone al multiforme borbottio di quelli che assurgono a luoghi di vera e propria contronarrazione collettiva: il condominio, il bar, la parrucchiera, la chiesa, le tribune del campo sportivo…
A compiere una vera e propria dichiarazione di poetica per nome di Tofani è lo stesso Enrico, quando si fa scaricare dal fratello il film Quasi amici, in cui si racconta l’amicizia tra un miliardario paraplegico e il suo aiutante personale, e all’obiezione di un amico “Ma non è il film con quel tizio sulla sedia a rotelle? […] Dici sempre che non li vuoi vedere i film con i disabili, che ti fanno schifo…”, risponde “Ma-quello-è-diverso… Quello-fa-ridere!”.
E infatti si ride molto in questo Fiori a rovescio. Si ride di fronte a vizi, virtù e caratteri della provincia che ben conosciamo, marcati a volte fin quasi con un tono fantozziano (“L’alieno in questione si chiamava Carlo Maria Bitossi, ed era atterrato a Cuzzole da Pisa il primo gennaio 1993, per prender possesso dell’abitazione della defunta prozia Delfa, insieme alla famiglia composta, in rigoroso ordine di rilevanza, da: quintalata di moglie immusonita; quattordicenne devastato da merendine e acne; botolo spelacchiato dal ringhiare asmatico; Fiat Tipo Duemila Iniezione Elettronica Sedici Valvole Grigia Metallizzata, ragione di vita e vero capofamiglia.”). Ma a dare spessore al libro, oltre il riso, buono per stemperare e alleggerire le quasi duecento pagine, ci sono la delicatezza e l’amore con cui il narratore entra nei pensieri più profondi dei suoi eroi qualunque, facendoci immedesimare nelle loro fragilità, nelle loro debolezze, nei loro sogni. E di mettere in scena una bellezza inattesa da cui è bello essere sorpresi, come nel ballo improvvisato da Enrico e Adele, di cui lui è segretamente innamorato, in un bar sul mare.
“[Lei] colse il fiore di quella mano rattrappita e si scaldò al sole pieno di quel sorriso-mondo. In mezzo alla sala del bar c’erano solo loro ma tutti gli sguardi dei clienti accompagnarono come un’orchestra quella strampalata danza: una sedia a rotelle che lentamente girava su sé stessa mentre le mani dei due ragazzi si toccavano, dita storte, dita che sbucavano da un gesso, e Adele era china su Enrico, guancia a guancia, come in un ballo vero. Erano la goffaggine che diventa grazia, la nuvola che entra per sbaglio in una stanza e resta lì sospesa. Le assi del pavimento nemmeno scricchiolarono, il barista smise di lavare tazzine e cucchiaini, un bambino restò a bocca aperta mentre un rivolo di vaniglia gli colava da gelato lungo il braccio. Un’anziana signora con una veste a fiori si commosse e prese un fazzoletto dalla borsa, e un uomo, entrato nel bar parlando nel telefono, appena s’accorse di quella sospensione – tempo e musica – chiuse la comunicazione sottovoce. Solo Enrico e Adele erano in movimento in quella fissità, come le note, come il ventilatore appeso sopra il soffitto, come il mondo, che quello proprio non si ferma mai.”