“Euforia” (di V. Golino, ITA 2018)
Matteo (R. Scamarcio) è un giovane imprenditore brillante e ricco, pieno di colleghi e amici eccentrici, amanti della bella vita, anche un po’ disperati, soliti a festini dove circola abbondante la “bianca neve”. Riceve nel pieno di una giornata di lavoro una telefonata: a suo fratello Ettore (V. Mastandrea), di tutt’altro, più schivo, carattere, semplice insegnante alle medie, è stato diagnosticato un tumore alla testa, da ridurre con la radioterapia e comunque non operabile. Nessuna speranza e pochi mesi di aspettativa di vita.
Matteo è toccato profondamente e sente la responsabilità di gestire una situazione piena di difficoltà. Cambia, anche se solo fino a un certo punto, il suo stile di vita, certo gli cambia qualcosa dentro. Vive con un giovane fedele amico ma non ne è amante e pratica la sua dichiarata omosessualità privilegiando la promiscuità e i piaceri del sesso occasionale. La famiglia è della notabilità di Nepi (l’antica etrusca Nepet): Ettore vi abita ancora, ma c’è la necessità di curarsi a Roma e dunque va a risiedere dal fratello. Intorno a questo nodo si avviluppano, verificandosi contemporaneamente quasi come per uno scherzo del destino, altre situazioni, la più rilevante delle quali è che Ettore ha trovato da poco in Elena (J. Trinca) un nuovo giovane amore e la notizia arriva a sua moglie Michela (I. Ferrari); quest’ultima dunque vive il contrasto devastante di dover constatare che il padre di suo figlio e uomo che ancora ama non più ricambiata è in un tunnel senza uscita. I due hanno anche un bambino verso il quale Ettore non dimostra particolare attenzioni, un atteggiamento vistoso, che poi sarà un elemento scatenante di una lite tra i fratelli. Non importa andare oltre con la sinossi.
La Golino è anche una cineasta. Gira questo film con rigore, asciuttezza, senza concedere nulla al patetismo (tutt’al più a qualche effetto speciale), intrecciando senza cadute di stile o momenti di stanca – anzi il film cresce di intensità col tempo – le diverse dinamiche e i sentimenti anche sconvolgenti che esse attivano o riflettono. Tutto ben ritratto, le traversie legate alle ospedalizzazioni (con un cameo dello scrittore Edoardo Albinati, neurologo che cura Ettore), le risonanze magnetiche quasi scene da fantascienza, e l’attesa dei loro risultati, il tacere o minimizzare al malato le sue reali condizioni, che egli peraltro ha perfettamente intuito. Insomma la lotta contro il cancro è descritta con duro realismo, ma funziona molto bene il modo con il quale tale descrizione si alterna a rappresentazioni di sofferenze familiari legate ad altre traversie, alle oscillazioni nei rapporti tra fratelli (resi più instabili dagli errori che in buona fede o per impulsività Matteo commette nella gestione della malattia di Ettore, cercando di farlo stare meglio per il tempo che gli resta), a scene di sesso, feste, droga, affari che non spariscono dallo sfondo.
Anche Miele (2013) l’unico precedente lungometraggio di Valeria Golino toccava un tema non lontano da quello qui affrontato: il fine vita, l’eutanasia. Qui è centrale la malattia più terribile come fattore di destrutturazione, e ricostruzione su nuove basi, dei rapporti familiari e interpersonali.
Ma perché intitolare un’opera apparentemente dominata dal dolore Euforia? In greco antico il termine euphoria ha varie accezioni: la principale è ‘abbondanza’, ma poi anche ‘capacità di sopportare’, e ‘senso di benessere’ che è quello poi passato nella nostra lingua. L’autrice ne ha dato, del titolo, una spiegazione suggestiva, poetica, che però coglie nel vero, si lascia decifrare: “Si tratta di quella bella e pericolosa sensazione sperimentata dai subacquei nelle grandi profondità: un sentimento di assoluta felicità e di libertà totale. È una sensazione che deve essere immediatamente seguita dalla decisione di raggiungere la superficie prima che sia troppo tardi, prima di perdersi per sempre negli abissi”. Qui proponiamo il nostro ben più prosaico riscontro, da semplici spettatori: l’euforia, intesa come senso di benessere, di piacere, o di eccitazione, attraversa il film in diversi modi: quello intossicato della cocaina con ciò che ne consegue, quello legato all’autoconvincimento di Matteo che suo fratello possa star meglio, o di essere quantomeno capace di aiutarlo, quello dei piccoli piaceri o dei piccoli gesti di amore riscoperti, quello del tempo che assume una dimensione inedita e “lunga” (lo sa benissimo chiunque si sia trovato ad affrontare simili situazioni: un mese sembra tanto…), quello dello stesso Ettore, in vari momenti durante il decorso della malattia (che non conosciamo sino in fondo, ma possiamo divinare dietro un abbraccio) e poi, nel ricongiungimento alla natura quando vede in cielo uno stormo impazzito nelle sue losanghe, nerissimo; questo proprio quando ha deciso di rinunciare alle cure, probabilmente per assaporare senza accanimenti né terapeutici né affettivi il tempo rimanente e le persone care.
Eclettico Scamarcio nell’interpretare un personaggio dalle molte sfaccettature; Mastandrea, personaggio più monocorde e simile ad altre sue maschere un po’ disgraziate è, come al solito, bravissimo.