Bennato, unico rocker
Non è il nome rock a non dire più nulla. È che non ci sono più quei fighi della madonna di una volta, cioè quelli che ha citato anche Gino Castaldo l’altro giorno su Repubblica: Bob Dylan, Lou Reed, Jimi Hendrix, Frank Zappa, Pink Floyd, Rolling Stones e altri.
Del resto che vuol dire barocco? E che cosa vuol dire jazz? Come etichette tassonomiche della critica sono espressioni per indicare un’atmosfera (come l’avrebbe definita Roland Barthes, quello che non faceva le recensioni a Guccini, per dirla con Via Paolo Fabbri 43), un comune sentimento, un insieme, un recipiente dentro cui far confluire a stagioni alterne questo o quel musicista, questo o quel prodotto musicale, questo o quel disco. Per esempio, se quando avevo 20 anni mi avessero detto che i Queen facevano rock, avrei ribaltato il tavolino del bar e probabilmente avrei bestemmiato, perché i Queen erano al massimo una pop-band alla stregua dei Pooh. Tanto di cappello, ma il rock è un’altra cosa. Non sto dicendo che a 20 anni amavo i Metallica o l’heavy-metal, anzi non li potevo soffrire; dico che come allora anche adesso ci sono prodotti musicali che sono rock e quelli che non lo sono. E su questo – mi si passi l’antipatia – serve anche un po’ fare il processo alle intenzioni.
Quindi non è questione di sigle o di contenitori stilistici. Secondo me è questione di persone, di artisti. E anche di critici sì, di commentatori perché di questi tempi in Italia non siamo più soltanto tutti commissari tecnici della nazionale di calcio, ma siamo tutti esperti di vaccini, analisti di geopolitica, critici cinematografici, e chi più ne ha più ne metta.
I barbari
Dentro al rock che piace a me ci metto Bruce Springsteen invece dei Supertramp (ma che disco strepitoso era “Breakfast in America”?), ci metto The Police invece di Bruce Cockburn (ma che lavoro fantastico è stato “Inner City Front”?), ci metto The Smiths al posto dei Talking Heads (ma che canzoni meravigliose ci sono in “Speaking in Tongues”), e degli U2 mi piace più la loro svolta pop (altra etichetta questa sì dannata e variegata a più non posso) invece di quando rockeggiavano agli inizi. Questi sono soltanto fulgidi e controversi esempi di un sentimento musicale.
Perché non se ne può più di celebrare ancora ad ogni anniversario Elvis Presley e Queen, Elton John e The Beatles: queste “icone” sono ormai insopportabili. Come non se ne può più di James Dean, Marylin Monroe e John Fitzgerald Kennedy. Che si parli allora di Van Morrison, John Lee Hooker, Paul Weller, farebbe meglio alla cultura musicale e popolare invece che al gossip.
Pensate che sono passati già 60 anni tra la canzone Love me Do del 1958 (pubblicata nel 1963 nell’album “Please, Please Me”, il primo dei Beatles) e oggi, e ne erano passati soltanto 34 tra quella canzone e Turandot, l’ultima opera di Giacomo Puccini… Per dire di quale balzo furono capaci i giovani del secondo dopoguerra (e i mitografi dell’epoca, tra cui metto giornalisti, scrittori e critici) rispetto ai giovani e ai commentatori dei nostri giorni.
Quindi che fine ha fatto il rock non è la vera domanda da porsi. La vera domanda è questa: dove sono finiti i barbari?
Filippo Tommaso Marinetti e il suo manifesto futurista era rock. I punk che mangiavano le scatolette di cibo per cani erano rock. Sir Paul McCartney è sempre stato un piccolo-borghese, come Sir John Lennon che rivendicava a ogni piè sospinto la sua “nobilissima” origine working class. Il rock è un modo di fare che arriva dalle crepe delle mani sanguinanti di chi raccoglieva il cotone nei campi degli stati del Sud, arriva dalle voci notturne straziate dall’unico carburante che permetteva di tirare avanti come schiavi, l’alcol. Il rock ha mutuato questo senso dal jazz, ed è stato più fortunato del cugino meno popolare. Tuttavia è solo una leggenda che il rock sia il genere musicale “maledetto”, perché nel rock lo show business ha fatto la parte del leone, e la disperazione vera il musicista l’ha concretamente vissuta solo col jazz. In tutta verità: Charlie Parker era rock, più di Jim Morrison e di Kurt Cobain.
Edoardo Bennato
Del resto in Italia ci meritiamo Vasco Rossi, come ci siamo meritati Alberto Sordi (per dirla con Nanni Moretti). Mentre dimentichiamo che l’autentico rocker italiano è stato ed è Edoardo Bennato. È un provocatore e un giullare nato: dell’Italia ha detto che ha un “problema latitudinale cioè il sud, e che Renzi avrebbe fatto meglio a presentarsi in Europa con il leader della camorra e quello della ‘ndrangheta al fianco, perché sarebbe stato più rappresentativo dell’Italia che presentarsi con Boschi e Del Rio. È pazzo come un cavallo perché può incazzarsi seriamente se gli domandi soltanto della sua fama del passato. È contorto nelle sue analisi e simpatie politiche: quando Grillo scelse di candidare alle elezioni il suo movimento fece una specie di “instant song” contro di lui, intitolata Al diavolo il grillo parlante, salvo poi andare a suonare con Grillo alla manifestazione nazionale dei 5Stelle, e affermando subito dopo che sventolare la bandiera del rock significa andare contro le fazioni politiche…
Capite che l’uomo non ha la dote della coerenza ed è oscenamente interessato esclusivamente al rock. Al suo cospetto Vasco Rossi, tutto ripiegato sulla sua storia personale di ex-peccatore e prodigo di consigli verso i giovani, sembra Sant’Agostino, vale a dire un intellettuale da invitare ai talk-show, altro che un rocker.
I lavori musicali di Bennato, fin dall’inizio, sono un serissimo omaggio al rock’n’roll. “Burattino senza fili” è una metafora eccezionale del ruolo del cantante, ed è il primo esempio di concept-album, di opera-rock italiana, dove Bennato mette in croce pure le Feste dell’Unità, e critica il partito monolitico che vorrebbe stringere il pinocchio anarchico e irresponsabile, cioè la gioventù urlata e simbolica di quel periodo, in una spira ideologica che il rock non potrebbe accettare così granitica.
E con l’altra opera-rock “Sono solo canzonette” mette in riga invece l’altra faccia della sinistra, quella modaiola e movimentista, fino a quella folle dei gruppi della lotta armata, evidenziando in canzone il concetto della saldatura alto-borghese di certi capi terroristi con le sigle politiche estremiste, come già Pasolini aveva cercato di spiegare. Tutto questo prendendo a base metaforica due personaggi simbolo della gioventù più innocente, quella dell’adolescenza, cioè Pinocchio e Peter Pan. Nessun altro ha fatto di meglio, riuscendo a scrivere canzoni con così tanti livelli di ascolto e di interpretazione. Ma anche il disco “Uffa! Uffa!” è, forse più degli altri due, un grande omaggio al rock, da quello classico degli anni ’50 a quello delle origini di Muddy Waters, fino al punk-rock di quel momento (l’album fu pubblicato nel 1980) dove Bennato invita il gruppo bolognese dei Gaznevada a suonare con lui nella title-track.
Altro stupendo lavoro è quello prodotto da Garland Jeffreys, cioè “È arrivato un bastimento”, con toni rock, etnici ed elettronici che fondano un suono inconfondibile per l’artista napoletano e sono forse il punto più alto riguardo al rock in quel momento, cioè una forma che tiene insieme tante ispirazioni musicali differenti come il reggae, la beguine, il folk e molto altro.
Epilogo
Insomma, c’è un’anima da vero rocker in questo anziano cantore anche di Napoli e di un sud mai melodico, mai illustrato, (che prosegue il suo tour 2018 nel mese di dicembre: il 2 a Firenze, il 6 a Catania, l’8 a Bari, il 10 ad Assisi, l’11 a Cremona).
Non dico che Bennato sia il futuro del rock, dico che ne è stato (con Litfiba, CCCP/CSI e Subsonica) il suo motivatore più fedele e scrupoloso.
Sarebbe ora che, a partire da oggi, i “giovani” musicisti la piantassero di mettere in piedi cover-band; sarebbe ora che, a partire da oggi, i “giovani” cantanti smettessero di fare le scimmiette in qualche talent. Il rock non può mai morire, come cantava Neil Young, soltanto se ricomincia a sporcarsi le mani con la terra.