Marcella Croce, Oriente e Occidente, Edizioni Torri del Vento, Palermo 2018, pagg. 192, euro 12
Con il suo libro “Oriente e Occidente” Marcella Croce ci prende per mano e ci conduce a curiosare in varie parti del mondo, con leggerezza, facendocene assaggiare (dall’America all’India, dalla Groenlandia al Giappone, dall’amatissimo Iran a Cuba, e altro ancora) i più rilevanti sapori, sperimentati personalmente nei suoi viaggi. Ciò che sorprende è che buon parte di questi viaggi Marcella li ha compiuti con i bambini e un marito complice al seguito: in camper, in tenda o, in Irlanda, dentro un carrozzone da zingari. Affrontando situazioni paradossali e rischiose, vissute sempre con coraggio e fiducia negli altri; scoprendo persone e luoghi con immutato gioioso entusiasmo.
Scelgo due, tra i tantissimi resoconti e testimonianze, che mi hanno particolarmente colpito. L’incontro con le monache Jain, nel Gujarat (India), vestite di bianco e quasi tutte scalze, camminano per chilometri. Automobili e camion lasciano loro il passo. Il Jainismo è la fede più ascetica del mondo; i fedeli sono una piccola minoranza, vegetariani assoluti, e per tradizione, una volta l’anno, lavano con il latte tempio e statua del loro Profeta.
Parlando del Brasile, l’autrice ci racconta il passato di questo immenso paese, la favolosa corsa all’oro del ‘700: si trattò all’inizio di alcune “pietre nere”, trovate da un mulatto nel fiume Tripuì. Poi si scoprirono i diamanti, che all’inizio venivano usati (si racconta!) per segnare i punti durante le partite a carte. Gli schiavi erano molto devoti, e le loro splendide chiese barocche furono “impreziosite dall’oro che trovavano nei loro capelli dopo il duro lavoro nelle miniere”.
Tutto il libro è costruito intrecciando con estrema naturalezza il proprio vissuto normale (matrimonio, concorsi, nascite, assegnazione di cattedre, dialoghi dei figli) con voli transoceanici e e favolosi soggiorni in Etiopia, quasi a dire a tutte e tutti noi: “Viaggiare è semplice. Anche nei luoghi più lontani. Provateci!”. Perché dopo si ritorna dove si è nati, e si ritrovano i pupi e le sfogliatelle, ed altre leccornie cui pure l’autrice ha dedicato un libro. L’ultimo delizioso capitolo si intitola “La patria”, un po’ provocatoriamente, per dissociarsi dalla valenza nazionalista e militaresca che viene data talvolta alla parola, che invece è sintesi di affetti e cultura. Che cosa resta di 40 anni di viaggi? Una più ricca “percezione del mondo”, non per fare paragoni tra un modo di vivere e l’altro, ma per osservare le differenze e arricchirsi con nuove conoscenze. Il simbolo più bello: una pitaya comprata nel 1994, “solo un rametto”, da una venditrice di strada in Messico, che aveva avvisato di fare attenzione, perché “se muore”. E che, portata a Palermo, mal piantata prima e considerata perduta, ha trovato poi da sola la strada per rinascere ed arrampicarsi fino al primo piano della casa di Mondello, fiorendo inaspettatamente, e producendo (quasi 20 anni dopo l’acquisto) deliziosi frutti.