Luca Ricci, Trascurate Milano, La nave di Teseo 2018, pagg. 86, € 9
Sulla banchina di Zara c’è solo un barbone con la sua casa di cartone sottobraccio. Martina mi ha seguito. La fisso un solo istante, poi mi scaglio su di lei. Andiamo in fondo, dove inizia la galleria, dove c’è più vento. Ma il vento oggi siamo noi. La faccio inginocchiare e glielo metto in bocca. Non oppone resistenza, anzi di tanto in tanto la sento sussurrare con una voce quasi non più sua, dolciastra e perversa, che le piace. Le spingo la testa. Il barbone da lontano ci guarda, capisce tutto, non ha niente da eccepire. Evidentemente non contrariamo la sua filosofia del fallimento. Le guance rubizze scompaiono dentro una barba stinta, biancastra, e all’improvviso mi convinco che sia l’unico vero Babbo Natale in mezzo a tanti impostori (ecco chi dovrebbe essere Babbo Natale, uno che vive e lascia vivere, uno che dona umana comprensione nell’indifferenza, uno che si fa i cazzi suoi).
Si può cominciare da qui a parlare di Trascurate Milano di Luca Ricci, racconto contronatalizio in cui durante le feste di Natale un padre di famiglia molesta una giovane ragazza nella metropolitana di Milano e si instaura tra loro un rapporto di comunione irrazionale, profonda e oscura. Si può cominciare da qui perché c’è in nuce tutto lo spirito della rivolta che questo breve libretto incarna. In tempi di politicamente corretto spinto all’eccesso, di moralismo di ritorno, di persecuzione nei confronti dell’istintuale, in tempi in cui le opinioni sono misurate in secondi e i desideri in rispettabilità, in cui anche all’arte sembra permesso spalancare le porte sull’ombra solo quando questa ha caratteri di fragilità, nevrotici e autocolpevolizzanti, nell’epoca del ritorno da protagonista del processo primario dell’autocensura, Ricci riporta con coraggio e controcorrente in primo piano sul palcoscenico dell’urgenza letteraria “quel che non ha governo né mai ce l’avrà, quel che non ha vergogna né mai ce l’avrà, quel che non ha giudizio”: l’indomabilità dell’eros.
“Così non va”, mi dice, sorprendendomi. “La vita di sopra non è fatta per noi, io sono quella di sotto, quella della metro.”
Resto senza parole perché ha appena detto quello che avrei voluto dirle io.
[…] “Io non ho mica l’entusiasmo necessario per star qui a pattinare e corteggiarti,” le dico, sottolineando un concetto superfluo.
Mi guarda. I suoi occhi sono inquieti, sempre inquieti.
“Ma chi ti ha chiesto niente? Guarda che hai fatto tutto da solo, coglione.”
La vedo allontanarsi, uscire dalla pista, raggiungere una delle panche esterne per togliersi i pattini. Non la seguo, resto nel centro esatto della pista. Vedo il ghiaccio completamente rigato dalle lame dei pattini: non è nulla rispetto a come possiamo ridurci noi.
Ambientato per la maggior parte del tempo nel sottosuolo di una Milano invernale e inquinata non solo dallo smog quanto dalla superficialità, è fin troppo facile individuare tutti gli aspetti allegorici e metaforici del caso ma la qualità principale di Trascurate Milano sta nel non essere un racconto a chiave o a tema. In questo Ricci supera perfino le sue migliori prove precedenti, in cui si inverava uno sguardo in un certo senso freddo, entomologico, con caratteri che si avvertivano a volte “predisposti” alla provocazione o all’esemplarità. Il protagonista di questo racconto milanese è invece un antieroe pulsante di drammatica e verissima contraddittorietà. Ha un’etica ma questa etica non lo contiene, ha un sentimento ma non gli è asservito, ha un’ombra ma non si riduce a quella. Fa, sbaglia, si pente e sbaglia di nuovo, sente e poi sente diversamente, agisce pro e contro le proprie sensazioni, è posseduto e possiede. E inseguendo l’interiorità di quest’uomo, magmatico come un personaggio di Knut Hamsun, nella sua fluidità di pensieri e azioni, la prosa di Ricci a sua volta si polarizza: a tratti si raggela in una laconicità specchio dell’indicibile, a tratti si infiamma in accensioni epigrammatiche e in una musicalità ipnotica protratta per lunghi flussi, come nel caso del tragitto mattutino verso la scuola in cui il protagonista fa ripetere alla giovane figlia la tabellina del nove, andando alla deriva di un’autoconfessione incontrollata nella pause tra una moltiplicazione e l’altra.
…desidererei dirtelo, dirti che ogni tanto anche papà vorrebbe piangere come fai tu, di colpo, senza vergogna, senza sensi di colpa, mi chiederesti perché?, ne rimarresti stupefatta?, eppure un adulto avrebbe molti più motivi di un bambino per scoppiare a piangere, ha vissuto di più e ha più ricordi, e a un certo punto, di notte, oltre alle ricapitolazioni di routine (dei debiti, dei crediti), si viene presi da una specie di morsa definitiva al cuore, implacabile, che consiste nell’aver nostalgia di tutto, di quel che è stato, pacchetto completo, perché quella è la nostra vita che se n’è andata, e il resto se ne sta andando adesso, forse impazzire vuol dire proprio avere nostalgia di tutto, cinque per nove?, amore non tentennare, per favore, la sapevi tutta la tabellina, cinque per nove quarantacinque, esatto, e io mi perdo nelle mie storie reali o presunte, vere o immaginarie, che differenza fa?, …
L’incontro tra l’uomo e la ragazza ha il ritmo di una danza macabra che procede verso l’annientamento, un’operazione a somma zero (“Non voglio sapere nulla, per noi ogni volta è l’ultima.”), una rivolta all’inautenticità di quanto in superficie avviene ed è replicato mille e più volte, come i regali di Natale, in fondo tutti inautentici, tutti uguali a se stessi (“Chi non aveva ancora niente ha comprato qualcosa, chi aveva già qualcosa ha comprato qualcos’altro.”). È la rivolta insita in una concezione erotica il cui nume tutelare va individuato, più che nel Marchese De Sade, in Georges Bataille. Sperpero (in primo luogo di sé) più che sovversione. E in ciò Trascurate Milano va oltre la scandalosa ma corretta geometricità di Il gioco di D’Amicis, per parlare di un altro recente tentativo di squarciare il velo del rinnovato perbenismo. Ricci lo sa, e trova le parole per raccontarlo al meglio: l’eros non fonda alcun ordine o morale alternativi, l’eros non fa prigionieri o, se li fa, poi ne fa scempio. L’eros è una bomba atomica.
“Sempre mi stupirò di quegli scrittori che mettono l’amore alla fine della storia, per risolvere le cose, come sentimento edificante”, asserisce. “Per me l’amore va all’inizio, e complica tutto, manda all’inferno.”
Chiamatelo pure maniaco, se volete, chiamatelo mostro, chiamatelo inconscio (anche se è qualcosa che va molto più giù), chiamatelo ombra, chiamatelo come vi pare ma sappiatelo: Trascurate Milano parla di voi. Se mai il demone Eros vi ha toccato una sola volta in profondità nella vostra vita.