La crisi delle imprese italiane
I francesi possiedono oggi, in Italia, oltre 1900 imprese, per un totale di 250.000 dipendenti. Certo, non è il semplice titolo di proprietà che risolve il problema, ma è certo un importante indizio. Lo spostamento della direzione di Parmalat-Lactalis in Francia, lasciando sguarnita la grande food-valley parmigiana, è un segnale, come è certo un segno la questione dei cantieri STX e le operazioni “dure” del militare e avionico francese contro Leonardo, che è riuscita in limine a comprare Vitrociset, avendo la quale Parigi avrebbe fatto bingo.
I tedeschi hanno in Italia circa 1900 aziende, per un fatturato complessivo di 72 miliardi di euro. Il nazionalismo economico è ovviamente superato da tempo, ma le società tedesche o francesi corrispondono, come è naturale, alle catene del valore delle loro zone primarie, non si curano degli equilibri interni italiani. Quindi, vedo difficile poter fare politiche fiscali, industriali, bancarie non gradite ai proprietari UE di imprese italiane, aziende che risponderebbero a operazioni, percepite come avverse, semplicemente andandosene.
Dall’inizio dell’ultima crisi nota, ovvero dal gennaio 2008 ad oggi, sono passate nelle mani degli investitori stranieri ulteriori 830 imprese italiane, per un valore totale di 115 miliardi. Un Paese che non conta più nulla dal punto di vista produttivo (e qui non parliamo di banche) non può certo permettersi non solo una politica estera autonoma, ma nemmeno una strategia di investimenti interni. Per non parlare del fisco, che dovrà adattarsi alle operazioni “mordi e fuggi” dei concorrenti UE o esteri dell’Italia.
È questo il punto. E come è fatta, allora, la residua impresa italiana?
Nel solo 2018 sono cessate ben 133.000 attività, ovvero 364 imprese al giorno. Il momento davvero nero è stato, nel 2018, quello tra aprile e giugno, con il 29% di tutte le cessazioni. Sul piano geografico, cade soprattutto il Nord-Ovest, con il 27,7% del totale delle chiusure, con il Sud che segue (22%) e il Centro appena sotto (21%) fino al Nord-Est e alle Isole (8,6%).
La più debole è la provincia di Roma, con il 6,8% di cessazioni annuali nel 2018, ma poi c’è Torino tra le città più “ricche” di aziende chiuse (non si tratta di fallimenti, ma di chiusure – fate attenzione) fino a Caserta, stranamente la meno ricca di imprese cessate (perché ce ne erano di meno prima, è ovvio).
Circa sette su dieci aziende chiuse nel 2018 sono imprese individuali, ma con l’80% che aveva, però, sede in Lombardia, fino alle aree meno colpite solo perché meno industrializzate, la Puglia e la Toscana.
Senza “campioni nazionali” di settore non c’è alcuna impresa, né piccola né grande (infatti le aziende familiari non sono una “risorsa”) come afferma la lingua di legno della propaganda economica, ma solo un sostegno all’elasticità delle società più grandi.
Queste cose le leggete ora nel Piano Altmaier uscito tre giorni fa in Germania. Dove si teorizza la costruzione e il finanziamento pubblico dei campioni nazionali per sostenere la crescita e trasformare il sistema economico tedesco, troppo dipendente dall’export “maturo” e dalla disponibilità, monetaria e politica, dei partner della UE. Per chi legga il tedesco, lo potete studiare al link https://www.bmwi.de/Redaktion/DE/Downloads/M-O/nationale-industriestrategie.pdf?__blob=publicationFile&v=20.
Nell’Allmayer non troverete minchiate, tipo “piccolo è bello” o “elasticità senza fine” verso gli “shock asimmetrici internazionali”. Se sei abbastanza grosso sopravvivi comunque, altrimenti fai la fine delle miriadi di piccole felliniane imprese dell’Italia attuale. Nella mortalità nazionale, comunque, la maggioranza delle imprese cessate appartiene al commercio ma, subito dopo, alla ristorazione, il più elastico ma anche il meno efficiente dei business familiari. Poi oggi muore rapidamente il comparto costruzioni, ma anche il manifatturiero (7,7%) e perfino la silvicoltura e la pesca, che cessano al ritmo del 7,6% l’anno. L’unica risposta del nostro sistema produttivo a questa crisi è stata, manco a dirlo, la semplice delocalizzazione. Ovvero, imitare i potenziali produttivi dei nostri clienti più pericolosi andando a produrre a casa loro. Siamo, sempre dall’inizio dell’ultima crisi, a circa 35.000 aziende italiane trasferitesi all’estero. Ma non possiamo conoscere, comunque, il numero preciso delle imprese che ha chiuso da noi per poi trasferirsi all’estero. Chi ha delocalizzato lo ha fatto soprattutto nel settore commerciale, ma anche nel settore manifatturiero (al 18,5%): molto è stato portato fuori dallo Stivale.
I tedeschi hanno prodotto, tre giorni fa, lo ripetiamo, il Piano Allmayer, con la selezione e il finanziamento dei “campioni nazionali”, l’identificazione delle tecnologie di punta, da elaborare con progetti pubblico-privati, infine una nuova sequenza di “ammortizzatori sociali” che dovrebbero funzionare in modo meno generico delle vecchie leggi Hartz.
E la risposta delle imprese italiane alla crisi strutturale, qual è stata? La delocalizzazione, quasi unicamente la delocalizzazione. Sempre dal solito 2008, le delocalizzazioni sono state oltre 35.000.
Ma dove vanno le aziende italiane delocalizzate? Soprattutto negli Usa. Oggi ci sono ben 5580 partecipazioni italiane in aziende statunitensi, con un trend sempre più elevato. Mentalità business, un sistema legale e finanziario che funziona. Poi, arriva la Francia, la Romania, la Spagna, la Germania, il Regno Unito e, infine, la Cina.
Il crollo del 2017, in effetti, era stato però preconizzato dalla caduta a picco del 2004-2008 quando, dopo una cavalcata al +15% medio, arrivò il crollo delle esportazioni, con il -18%. Da quel momento, senza strategie centralizzate di sviluppo, settore per settore, ma senza nemmeno una politica bancaria ad hoc, il sistema industriale italiano diventò troppo piccolo anche per le necessità minime della popolazione e, soprattutto, per poter fare concorrenza dentro e fuori la UE. I numeri fanno impressione: un milione di lavoratori in meno nel manifatturiero, dal 2009 ad oggi, mentre la produttività è stata riacquisita con un aumento dell’orario di lavoro. E il costo per unità di prodotto è perfino aumentato, sempre in media, del 15%, il che crea un ulteriore svantaggio non monetario tra le nostre imprese (le poche che rimangono) e le concorrenti UE tedesche, francesi, spagnole.
Prepariamoci, per la gioia dei meno dotati tra i lettori di Latouche, a un sistema in cui distribuiremo pacifica e democratica povertà.