Addio a Massimo Bordin
Scrivo questo pezzo a braccio, non potendo verificare su internet per motivi tecnici tutti i dati.
Potrebbe apparire sorprendente che la scomparsa di un cronista e opinionista radiofonico, per quanto di una radiofonia nobile come quella di Radio radicale, abbia suscitato tanta emozione e manifestazioni di cordoglio. Molte centinaia se non migliaia di messaggi addolorati e comunicati di politici, uomini di cultura, cittadini qualunque hanno invaso i social, la mail della Radio, altri media. Un coro unanime di simpatia e affetto e stima. La televisione lo ha ricordato in prima serata dedicandogli servizi. Inevitabile dunque ripetere molto di quanto è già stato detto e palesare sentimenti di tristezza e di vuoto, come tanti altri. Ma qua non occorre essere originali.
Massimo Bordin, nato nel 1951, aveva iniziato collaborando – come egli stesso ha raccontato di recente in una bella intervista a La Stampa online, in cui ricostruisce la genesi della sua radio – per due anni con Radio Città Futura. Erano gli anni Settanta, quelli delle radio libere che spuntavano come funghi e gli anni della controinformazione. Militante dell’estrema sinistra, trotzkista con spiriti vagamente anarchici, era poi approdato non subito, ma pochi anni dopo la sua fondazione (avvenuta nel 1976 per volontà di Marco Pannella) a Radio Radicale, anche grazie all’esperienza maturata in precedenza. In quei primi anni Radio Radicale piazzava microfoni nascosti in Parlamento facendo ascoltare alla gente come avvenivano le sedute. Gli antipartitocrati per eccellenza volevano dar voce ai politici. E volevano anche però, al tempo stesso, dare spazio rispettoso alle istituzioni, traslandole agli ascoltatori, fornendo quello che da allora si è definito a buon diritto per alcuni a torto per altri un servizio pubblico. Genio della radiofonia favorito da una inconfondibile voce arsa dalla raucedine del fumatore accanito – come sentire un Tom Waits politologo – per quasi venti anni era stato direttore della Radio, dal 1990 al 2009, e per certi versi sua incarnazione, e poi ci è rimasto a lavorarci fino all’ultimo, nonostante il male ai polmoni che aveva tenuto riservatissimo. Avendolo ascoltato, come sempre, a fine marzo avevo notato che qualcosa non andava, si interrompeva, sembrava non farcela. E anziché un’ora e trenta dopo un’ora chiudeva la rassegna. Mi resi conto che stava malissimo.
Stampa e Regime, la rassegna dei quotidiani, apriva con la sua voce alle 7.30, per cinque giorni su sette, le mattinate di moltissimi appassionati della politica, professionisti della politica, diplomatici e di persone normali che magari con l’autoradio se la gustavano in mezzo al traffico andando al lavoro. “Buongiorno, eccoci all’appuntamento con Stampa e Regime, la rassegna stampa di radio radicale”: avrò sentito questo incipit migliaia di volte. Oltre duecentomila ascoltatori in media. Di vasta cultura, non solo politica, arguto, sardonico, analista finissimo, ha fatto di quella trasmissione una trasmissione di culto, per tanti. Dispiace che purtroppo i più giovani non potranno mai assaggiarla, per come la conduceva Bordin. Fu per tanti anni anche intervistatore domenicale di Pannella, con il quale infiorettava duetti che ricostruivano pezzi di storia dell’Italia. Bordin integrava le lacune di memoria, intuiva le allusioni e spesso polemizzava con senso critico e nessuna soggezione col vecchio patriarca radicale. Erano tra fumi anche per i soli ascoltatori come si vedessero, colpi di tosse, anzi scatarrii inquietanti, vibrazioni del cellulare non staccato da Pannella. Quasi un flusso ininterrotto – a quella Radio dai tempi dilatati e dalle dirette infinite la pubblicità non è mai esistita, invitarla a “mettersi sul mercato” è come una condanna – di pensieri, ricordi, valutazioni politiche sul presente alla luce del passato. Bordin aveva anche “inventato” lo Speciale Giustizia una sera la settimana dopocena (trasmissione di ore), era un esperto di P2, di politica internazionale, da Israele al Medio Oriente agli Stati Uniti. Memoria impressionante, e competenze che suscitavano stupore quando discettava sulla malavita organizzata sui clan mafiosi e la loro prosopografia, i pentiti, i processi e le condanne, i primi gradi e le cassazioni: soprattutto sì per faccende di mafia e camorra. Negli ultimi anni collaborava con Il Foglio con la rubrica BordinLine, trafiletto nel quale riversava alla grande il suo spiccato senso di ironia. Sotto la sua direzione, o comunque con Bordin da tempo fra i dirigenti più influenti dell’emittente, la Radio venticinque e passa anni orsono dette spettacolo con “Radio parolaccia”. Epica trasmissione eversiva, così soprannominata in quanto vennero lasciati aperti i microfoni delle segreterie telefoniche per trenta secondi, e per giorni gli italiani si scatenarono in profluvio di invettive polemiche, insulti, volgarità. Uno spaccato sociologico e linguistico impressionante dell’Italia della fine anni ‘80, dal quale traspariva con evidenza il latente conflitto tra Nord e Sud. La Lega Nord di Bossi stava nascendo.
Bordin, romano, era un uomo di straordinaria intelligenza, va ribadito. Rimase pubblicista quando era già un “fuoriclasse” (come giustamente l’ha definito in queste ore Mentana) del giornalismo. Egli amava definirsi cronista. Era noto a tutti nel mondo della politica, e questo spiega il coro di cordoglio istituzionale che ha seguito la sua morte, anche da parte dei suoi avversari, anche da parte di coloro che oggi stanno mettendo in pericolo per ignoranza (ignoranza del significato del servizio pubblico, di come è andata la vicenda, del sistema della natura giuridica della convenzione, dei costi enormi delle antenne e dei 100 giornalisti sguinzagliati quotidianamente a registrare di tutto… e senza un secondo di pubblicità) la sopravvivenza di Radio Radicale. Ma di questo non si deve parlare troppo ora. L’ho conosciuto una sera a Alghero, due anni fa. Ero nel centro della città catalana ad ascoltare un concerto del jazzista Fresu, in occasione della presentazione di un libro. Lo vidi (Bordin amava il jazz), e non potei rinunciare ad alzarmi subitaneamente farmi largo e presentarmi: “Piacere, lei è Massimo Bordin?”. Mi sorrise con grande affabilità e dolcezza, forse non abituato ad essere riconosciuto, quasi fosse un VIP. Parlammo alcuni minuti della spaccatura interna al movimento radicale dopo la morte di Pannella. Per la Radio che pure pareva a rischio a seguito di questa frattura legata a varie questioni legali mi rassicurò, mi disse che era ottimista e si sarebbe trovata una strada. Qualche giorno dopo gli chiesi l’amicizia su facebook, ma non mi rispose.
Non avrebbe gradito i numerosi superlativi elogiativi con i quali l’ho rievocato, ma come sennò?
Addio a Massimo Bordin, magistrale Tom Waits del giornalismo italiano, con un ringraziamento commosso per quanto ha insegnato.