Tutto sui Virginiana Miller
“Smette la pioggia goccia a goccia/il cielo di notte si spoglia, si rilassano gli armadi/si addormentano le cose/le finestre scontrose/da lontano gli orologi tornano a piovere tempo nel tempo”. Bastano questi pochi versi de “L’estate è finita”, con cui di solito chiudono i concerti, per sapere che i Virginiana Miller sono un gruppo un po’ diverso dagli altri. Questa canzone la misero in “Gelaterie Sconsacrate”, il loro primo album, uscito nel 1997, quando cantare in italiano testi di questo peso specifico stava diventando abbastanza fuorimoda, soprattutto nel rock. In vent’anni abbondanti le canzoni del disco sono invecchiate bene, tanto che non è così difficile sentire qua a là, anche in alcune delle band più interessanti del panorama attuale, il frutto dei semi piantati fin da quell’esordio. Penso a un brano come “L’uomo di paglia”, e lo lego ai miei amati Esterina, che con i Virginiana condividono anche l’ambizione cantautorale dei testi. I Virginiana Miller erano gli stessi che scrivevano una canzona delicatissima su Hitler in vacanza a Dötlingen, che parlava agli uccelli e li nutriva con il pane, ma poi, finite le ferie, “questo San Francesco si rimetteva in cammino e tornava a Berlino”, per dire che l’orrore si può raccontare anche attraverso il suo opposto, e la belva umana a volte ha la faccia di chi butta le briciole ai passerotti.
Di acqua nei fossi livornesi, lungo i quali sono cresciuti, nel frattempo ne è passata parecchia, la formazione si è parzialmente modificata (oggi Simone Lenzi canta, Antonio Bardi e Matteo Pastorelli suonano le chitarre, Giulio Pomponi le tastiere, Daniele Catalucci il basso e Valerio Griselli la batteria), e i fondatori si sono ritrovati qualche capello bianco (o in meno) sulla testa. Ultimamente è cambiata anche la lingua, visto che l’ultimo lavoro, uscito da qualche mese, si intitola “The unreal McCoy” ed è interamente scritto e cantato in inglese. Non è la prima volta che i Virginiana Miller si avventurano in questo territorio (anzi, avevano canticchiato anche in tedesco proprio in “Dötlingen” e in francese in “Nouvelle Cousine”), ma non lo avevano mai fatto per tutti i pezzi di un disco, e soprattutto è la prima volta che lo fanno diventando americani, parlando dell’America profonda, delle case su ruote su cui i pensionati scorrazzano attraverso gli States se hanno messo da parte qualche dollaro (“Motorhomes of America”), o della fine del proibizionismo (“Christmas 1933”), delle atmosfere rarefatte al confine con il Messico (“Albuquerque”), o dei soldati in partenza (“Soldiers on leave”), fino al consumarsi di un vecchio wrestler (“The unreal McCoy”). Naturalmente cantando di America Simone Lenzi parla anche del resto del mondo, anche di quello dietro la porta di casa, di sentimenti che possono visitare le villette basse e ordinate della cintura metropolitana ma anche gli appartamenti trasandati delle periferie d’Italia, come il terrore di fronte alla perversione assassina di “Lovesong” o la rassegnazione del campione in disgrazia che in “Old Baller” aspetta che gli confischino la casa e i trofei perché “what happened in Vegas didn’t stay in Vegas”. Basterebbe cambiare i casinò con il videopoker all’angolo per farne una storia italiana, o universale.
Alla fine quasi tutte le storie ci riguardano, e ci piacciono per questo: lo Uri Geller di “Fuochi fatui d’artificio” invece di piegare i cucchiaini con la mente cantava “Ci ho provato anch’io/ma tante tante volte/a chiuderti le porte col pensiero/e a dirti addio, davvero”, e il protagonista di “Anni di Piombo” nel penultimo album (“Venga il regno”) parlava di una storia d’amore ma ricordava il terrorismo, il terremoto, quel tempo al confine tra gli anni Settanta e Ottanta in cui ci si fermava all’autogrill per mettere i gettoni in un telefono di metallo e dire “Sono arrivato, sto bene”.
Ormai i Virginiana Miller hanno l’esperienza e la capacità per dosare, soppesare e tenere in equilibrio ogni parola, ogni nota. Non per nulla Lenzi nell’ultimo disco scandisce con rigore, come se volesse fissare nel silenzio quello che sta dicendo, inchiodarlo sul muro sonoro delle canzoni. Dal vivo questa recitazione puntuale sfuma in un inglese più disinvolto, ma non per questo diventa leggera. Il taglio intenzionalmente dato a questa fase è chiaro perfino nella scelta delle cover che suonano dal vivo, come “The ghost of Tom Joad” di Springsteen, che più America di così non si può, e “Hey hey, my my” di Neil Young, che è canadese ma sempre nordamericano.
Non sono una band da grandi folle e grandi numeri, i Virginiana, e questo un po’ è un peccato se si considera la qualità delle canzoni, un suono molto riconoscibile (a partire dalle chitarre) che come detto ha lasciato segni altrove, e se si pensa al David di Donatello vinto per “Tutti i santi giorni”, inserita nell’omonimo film di Paolo Virzì, ispirato a un romanzo di Simone Lenzi (“La generazione”). Il pubblico però c’è, è fedele e sparso per l’Italia, gente che aspetta con una certa impazienza, di solito giustificata dai tempi lunghi, l’uscita di ogni album o l’occasione di un tour. Sopportano la “pigrizia” di chi registra canzoni solo quando è sicuro di averle, e si mette per strada con il furgone pieno di strumenti, amplificatori e cavi aggrovigliati solo quando ha qualcosa di nuovo da raccontare, in una lingua o nell’altra.
Alla fine in un mondo ipersocial, e allo stesso tempo de-socializzato, rendere indietro i firmacopie con selfie annesso per avere in cambio gli abbracci e le strette di mano dopo i concerti è sempre un buon affare. A scriverlo si fa la figura di gente anziana e anagraficamente nostalgica, e d’altro canto proprio Lenzi dal palco quando presenta “The real McCoy” dice: “Abbiamo fatto un disco che parla soprattutto di vecchi”. Va sempre così, lo scrivevo prima: ci piacciono le canzoni che dicono qualcosa di noi. L’ultima volta che li ho ascoltati dal vivo, uscendo dall’ex cinema che li ospitava c’era la fila dei giovinastri in attesa del dj-set notturno e – a guardarla – tutta quell’esuberanza faceva quasi rabbia, almeno a noi che ce l’avevamo a portata di mano e ora non la troviamo più. Che potrebbe essere un’idea per un’altra canzone sui vecchi, ma fermiamoci qui.