La meritocrazia fa male
È sotto tiro il concetto della meritocrazia, l’idea che sia meglio che i più abili governino i processi e le istituzioni – e che con le responsabilità vengano concesse prerogative come la paga più alta e una condizione di vita superiore.
Da una parte, l’attacco è probabilmente dovuto alla gestione non brillante da parte degli “esperti” della perdurante crisi economica, e dall’altra dalla celebrazione della mediocrità caratteristica della cultura dei social, dove i consigli sanitari si cercano dalle divette di Hollywood e quelli climatologici da studentessine svedesi che “almeno sono sincere”.
La critica più acuta alla meritocrazia però nasce negli anni Sessanta da una “boutade” dell’accademico canadese Laurence Peter che, nell’enunciare il suo Peter Principle, osservò come in una gerarchia meritocratica sarebbe ragionevole aspettarsi che ogni dipendente salisse di grado fino a raggiungere il proprio livello d’incompetenza – bloccandosi lì – con il risultato che le organizzazioni tenderebbero nel tempo ad essere dominate da incompetenti.
In parte scherzava, ma la logica – cristallina – fu subito evidente e da allora il problema è stato ampiamente studiato, particolarmente nelle organizzazioni di vendita, dove i più bravi venditori – identificabili con precisione attraverso i loro risultati – spesso vengono promossi a ruoli direzionali. Una recente ricerca, Promotions and the Peter Principle – di Alan Benson, Danielle Li e Kelly Shue; professori alla University of Minnesota, al MIT e a Yale – dimostra ancora la validità dell’intuizione di Peter.
Su quasi 40mila venditori presso 131 aziende americane, è stato trovato infatti che la capacità di vendere è negativamente correlata alla performance alla direzione. Quando un venditore è promosso a manager per avere raddoppiato i suoi risultati, il gruppo che va a dirigere vede le proprie vendite crescere mediamente a un tasso del 7,5% inferiore a quelle di un gruppo equivalente guidato da un manager più debole alla vendita di quello promosso.
Forse è una fortuna che la vera meritocrazia, basata puramente sulla promozione dei più abili, è spesso una pia frode motivazionale, onorata nelle chiacchiere, ma nei fatti a volte parecchio meno.