Pablo Neruda, Versi del Capitano, Nuova Accademia Editrice 1963, pag. 192
Per il Capodanno 1967 una certa Carmen ha regalato I versi del Capitano all’amica Renata; un mio amico me ne ha fatto dono pochi giorni fa, dopo averli scoperti su una bancarella di libri usati. Mi emoziona leggere la dedica a distanza di tanti anni: “Mia cara Renata, in questo giorno fausto e gaio…”.
Leggo nella presentazione a cura di Giuseppe Bellini che Los versos del Capitán “apparvero, anonimi, a Napoli, nel 1952, in edizione limitata di quarantaquattro esemplari, a cura di Paolo Ricci, e solo l’anno successivo il libro fu pubblicato dall’editore Losada di Buenos Aires, nella collezione “Contemporanea”. Questa edizione diede, naturalmente, ampia diffusione alla raccolta e originò immediate polemiche. Anzitutto si poneva il suggestivo problema dell’individuazione dell’autore, scarsamente mimetizzato dalla lettera con cui Rosario de La Cerda – evidentemente Matilde Urritia- aveva accompagnato il libro all’editore”.
Matilde era una cantante e scrittrice cilena, conosciuta da Neruda a Santiago del Cile, per cui lui lasciò la compagna Delia de Carril e che sposò con matrimonio civile a Capri dove il poeta soggiornò nel 1952, dopo aver lasciato il Cile per sottrarsi alle misure autoritarie del governo di Videla.
Politicamente impegnato, ne I versi del Capitano lui torna al canto d’amore rivelando una storia appassionata e suscitando le critiche di chi, riconoscendolo nel libro, definì questa raccolta poesia privata; addirittura molti parlarono di una decadenza, di un vero fallimento del poeta.
Al momento della seconda edizione delle Obras Completas del 1962, Neruda decise di includere anche Los versos del Capitán, riconoscendoli come suoi e spiegando più tardi che sono “il documento agitato del suo amore per Matilde Urrutia”.
La stessa Matilde, firmandosi Rosario de La Cerda, nel 1951 ha inviato all’editore da L’Avana gli originali dei versi che, come si legge nella lettera prologo alla prima edizione, sono stati “scritti sui treni, aerei, caffè e su piccoli foglietti strani”, molte carte illeggibili tanto sono stropicciate, che lei è riuscita a decifrare: “Questo amore, questo grande amore, nacque nell’agosto di un anno qualsiasi, nei viaggi che facevo come artista per i villaggi della frontiera franco-spagnola. Lui tornava dalla guerra di Spagna. Non tornava vinto. Era del partito della Pasionaria, era pieno di illusioni e di speranze per il suo piccolo e lontano paese…mi spiace non poter rivelare il suo nome… I suoi versi sono come lui: teneri, amorosi, appassionati e terribili nella sua collera…Entrò nella mia vita, come egli stesso dice in un verso, abbattendo la porta. Non bussò con la timidezza di un innamorato. Dal primo istante si sentì padrone del mio corpo e della mia anima”.
Ritenendosi poco letterata e incapace di stabilire il valore di quei versi, al di là di un loro valore umano indiscutibile, Matilde credette che fosse suo dovere comunicarli al mondo.
Quello che vi si scopre è un amore assoluto, totale, di amante padrone, con tutte le declinazioni della passione, del possesso, della tenerezza, della gelosia: “Se il tuo piede devia di nuovo/ sarà tagliato./ Se la tua mano ti porta ad altra strada,/cadrà marcia./Se m’allontani la tua vita/ morrai/anche se vivi./Sempre sarai morta od ombra/se andrai senza me sulla terra”.
Un’intesa nata al primo sguardo, profonda e complessa, irrinunciabile comunque: “ Amore mio,/ci siamo incontrati/assetati e ci siamo/bevuta tutta l’acqua e il sangue,/ci siamo trovati/affamati/ e ci siamo morsi/come morde il fuoco,/lasciandoci ferite./Ma attendimi,/conservami la tua dolcezza./Io di darò anche/una rosa”.
Appassionato e terribile, come Matilde stessa scrive, lui la adora, sa di non risparmiarle il dolore, sa di essere l’uomo a cui molti guardano con speranza, ma anche il suo uomo: “Ti ho fatto male anima mia,/ho straziato la tua anima./Intendimi./Tutti sanno chi sono, ma quel Sono/è anche un uomo/per te”.
Se gli altri lo vedono un Capitano forte, solo lei ha il diritto di conoscerne le debolezze. “In te vacillo, cado/e m’alzo ardendo./Tu tra tutti gli esseri/hai il diritto/di vedermi debole”:
Ne I versi del Capitano la donna amata e la Natura si fondono, in un rimando continuo alla bellezza del creato: “Per me sei un tesoro più colmo/d’immensità che non il mare e i grappoli,/e sei bianca e azzurra a vasta come/la terra nella vendemmia./In questo territorio,/dai tuoi piedi alla tua fronte,//camminando, camminando, camminando,/passerò la mia vita”.
E non si stanca di esaltarla, quella bellezza, quasi di creatura divina donata alla Terra: “Bella,/come nella pietra fresca/della sorgente, l’acqua/apre un ampio lampo di spuma,/così è il sorriso del tuo volto,/bella/… Bella/i tuoi seni sono come due pani fatti/di terra cereale e luna d’oro,/bella”. La concretezza dei riferimenti naturali amplifica la percezione della sensualità e della fisicità di lei.
Se il Poeta prosegue nella sua missione politica, nella sua lotta, questo amore gli rinnova la forza: “Dura è la mia lotta e torno/con gli occhi stanchi,/a volte, d’aver visto/la terra che non cambia,/ ma entrando il tuo sorriso/sale al cielo cercandomi/ed apre per me tutte/le porte della vita”. Il vento lo chiama per portarlo lontano, ma lui chiede di rimanere ancora “sommerso/sotto i tuoi grandi occhi,/per questa notte sola”.
A smentire i critici che pensarono che la poesia di Neruda, tornando all’amore, fosse alla fine, e che indebolisse in lui la consapevolezza di chi era, bastano questi versi: “Perché non sai/che con me vissero/migliaia di volti che non puoi vedere/…che son più forte/perché reco in me/non la mia piccola vita/ma tutte le vite,/e vado innanzi sicuro/perché ho mille occhi,/batto con peso di pietra/perché ho mille mani,/e la mia voce s’ode sulle rive/di tutte le terre/perché è la voce di tutti/quelli che non parlarono/di quelli che non cantarono/e oggi cantano con questa bocca/che bacia te”.