“C’era una volta a… Hollywood” (Q. Tarantino, USA 2019)
Un Tarantino ispirato (visto in v.o. sottotitolata) ci trasporta nella California del 1969, tutt’altro che soprattutto California dream. Racconta un’amicizia nel contesto storico, sociale, di costume di quegli anni, senza rinunciare a parlare di cinema, di registi e attori del periodo anteriore alla nascita della “Nuova Hollywood”. Questo è un esempio di metacinema, anzi è metacinema spinto, giacché i trucchi, le finzioni, le pause, le fatiche del girare e del recitare sono ben rivelati o ricordati allo spettatore, dialogando con lui e appagando alcune delle sue curiosità. Tarantino conferma di avere il dono di coinvolgere lo spettatore con le immagini – non solo pulp… P’ulp fiction’ è stato per lui una mixed blessing: gli ha garantito il successo ma l’ha costretto a portarsi dietro uno stereotipo riduttivo – con i movimenti avvolgenti della macchina da presa, i colori della fotografia, i dialoghi, la cura dei particolari scenografici, di abbigliamento, di arredo (dai poster alle scatole di tabacco alle auto d’epoca ai vinili). E’ alla lunga che ci si accorge comunque che siamo in presenza di un saggio di valore, e non di un brillante divertissement; quando il film trova il suo armonico compimento con un finale che sorprende: le due trame che ci si aspetta da un momento all’altro possano incontrarsi, per dar vita a un nucleo unico, non si incontrano se non in chiusura e in una modalità apparentemente banale, volutamente soffusa e smorzata, in attesa di un drammatico esito non rappresentato ma ben conosciuto. Nell’ultima scena: Sharon Tate (la solare Margot Robbie), incinta di Polanski, e alcuni suoi amici accolgono una sera tardi Rick Dalton (Leonardo di Caprio), popolare attore di serial televisivi che aspira però a diventare star del cinema. E che sembra contare in tal senso nell’appoggio del regista polacco e della moglie e protagonista di Per favore, non mordermi sul collo! (1967). Rick è in realtà appena sopravvissuto a una terribile irruzione in casa sua di violenti e settari hippies e sarà quella stessa notte che avverrà l’eccidio, che mieterà come vittima Sharon, ad opera di Charles Manson e della sua banda: il 9 agosto 1969.
Ottima la direzione degli attori, un po’ fastidioso il continuo sfondo musicale, poco importa se tipicamente tarantiniano. Interessante la critica al fanatismo violento di frange del movimento di protesta e dei giovani delle comuni. Bravo Di Caprio, anche se un suo monologo nel quale si sfoga e si autoflagella per essere ricascato nell’alcolismo con conseguenze negative sul mestiere e sull’apprendimento del copione da memorizzare ci è parso artificioso; molto bravo Brad Pitt, il Cliff Booth professionalmente controfigura di Rick e suo autista, che interpreta un personaggio piuttosto complesso. Piacevoli riscontri sul cinema “minore” italiano e apprezzamenti sullo spaghetti-western con menzioni di Giorgio Ferroni, Antonio Margheriti, oltre che un piccolo panegirico per Sergio Corbucci: come ipotizza Mariarosa Mancuso, quel cinema di serie B era forse il paradiso in terra del regista che nel 1969 aveva sei anni….Anche l’attricetta Francesca Capucci che aveva girato con Corbucci è inserita nella finzione del film, diventando la moglie di Rick, essendosi conosciuti durante un soggiorno di lavoro italiano del protagonista. Un appunto minore: non si capisce perché sia stata scelta una interprete, che è fatta parlare in italiano nella versione originale del film, caratterizzata da una evidente inflessione ispanica (la sensuale Lorenza Izzo è cilena, del resto). Qualcosa più che camei svolgono i due anziani miti Bruce Dern e Al Pacino.