“La vita invisibile di Eurídice Gusmão” (di Karim Aïnouz, BRA 2019)
Tratto dall’omonimo romanzo di Martha Batalha, questo film (vincitore dell’importante premio Un certain regard a Cannes) su uno struggente legame tra sorelle si apre con una citazione: in mezzo a scogli a ridosso del mare, due ragazze si guardano poi si muovono verso l’interno e si addentrano in una foresta densa di vegetazione e lungo un percorso di roccia scoscesa. Una rimane indietro, l’altra sale, una la chiama l’altra risponde e poi non risponde sino a perdersi mentre la musica ritma cadenze e lancia sonorità inquietanti. Questo è Picnic a Hanging Rock di Weir (1975), senza dubbio, queste sono Miranda e Irma. La scena è simbolica, o un flashback visionario. Si ritorna poi alla realtà.
Siamo nel 1950 nel Brasile del secolo scorso, oggi di Bolsonaro, e le due giovani sorelle, la diciottenne Eurídice (Carol Duarte) e la ventenne Guida (Julia Stockler) hanno i loro sogni, frustrati da un padre oppressivo, da una cultura maschilista e oscurantista. Guida presto si innamora di un marinaio, parte per la Grecia rimane incinta; ma dopo la seduzione l’abbandono. La famiglia al ritorno non vuole saperne della ragazza-madre, la respinge per il disonore. Lei deve andarsene. Scompare. Il destino è segnato: Eurídice e Guida che hanno un rapporto viscerale senza essere morboso non si troveranno più nonostante i tentativi, le lettere di Guida mai pervenute, mai fatte pervenire. E i genitori che fanno credere alla più piccola che sua sorella è morta. Molto efficaci alcune note estetiche di Francesco Boille, utili a dar conto della sensibilità del performer e sperimentatore di arti visive Aïnouz (https://www.internazionale.it/opinione/francesco-boille/2019/09/13/euridice-gusmao-telenovela-autore): “Quasi in ogni inquadratura i personaggi sono immersi, circondati, da muri, linee prospettiche, intersezioni divisorie, negli interni come negli esterni, che creano una grande vivacità visiva e una (ri)esplorazione degli ambienti, della loro veridicità e autenticità. Una sorta di mirabile unione formale che è l’opposto della vicenda delle due sorelle, due sorelle-specchio progressivamente sbriciolate, frantumate dal determinismo sociale. Ma queste linee divisorie sono avvolte in un onirismo costante che crea una sorta di stranissima psichedelia rétro, e non soltanto per il verde dominante, avvolgente….”.
Nel finale entra in scena la grande Fernanda Montenegro, nella parte di Eurídice Gusmão anziana.
Non si tratta di un’opera ammaliante, straordinaria, come è stata definita dalla critica. Ma sarebbe un peccato perdersela. Le risorse del cinema sono infinite e questo pur topico intreccio di due sorelle che tenute lontano da una ripugnante menzogna passano la loro vita pensandosi senza più ritrovarsi è un intreccio ben funzionante e a tratti commovente.