Analfabetismo di massa
Un vecchio articolo di due docenti di Stanford ci diceva che l’aumento dell’istruzione pubblica, per numero di laureati e diplomati e per valore del titolo, vale almeno un mezzo punto di Pil l’anno. Ma solo il 20%, di italiani, indipendentemente dai titoli di studio, ha le competenze minime adeguate per vivere nella società contemporanea. Il “capitale umano” ovvero l’insieme di competenze, conoscenze, abilità e sensibilità, diceva Ignazio Visco, l’attuale governatore della Banca d’Italia, accresce sempre il PIL pro capite, quando cresce anch’esso. Un anno di istruzione in più per la media dei lavoratori vale un aumento del PIL pro capite del 5%.
Ma in Italia le scuole oggi sono quelle che sono: pessime, inchiodate alla volontà dei genitori degli allievi di raggiungere presto e senza fatica il “foglio di carta”, con una burocrazia cretina e una servitù culturale prona ai più sciatti miti sessantotteschi e al verbiagesenza senso della pedagogia applicata. Quindi non c’è una seria correlazione tra titolo e qualità del capitale umano. In Italia, infatti, studiare rende meno, in termini di reddito futuro, che negli altri Paesi dell’OCSE: da noi è l’8,3% di aumento medio del reddito in rapporto al grado di istruzione, ma in Irlanda è il 12,3% e il 10,2% della Finlandia. La media UE è comunque bassa, siamo all’8,8%. Tutto ciò, naturalmente, disincentiva gli investimenti in capitale umano, in scuole, in migliori programmi, in una migliore selezione degli insegnanti, che rispondono con il vecchio adagio degli anarchici, “a salario di merda lavoro di merda”.
Certo, per quel che riguarda la sola laurea, conviene avere un titolo di studio universitario: si guadagna il 39% in più rispetto ai diplomati. Ma almeno un terzo dei laureati non trova lavoro o, se lo trova, non ha niente a che fare con il suo titolo di studio. Ma non c’è solo il numero dei laureati o diplomati, c’è, soprattutto, la qualità della loro formazione. E qui arriviamo al punto dolente: secondo le verifiche PISA dell’OCSE, che a molti insegnanti non piacciono ma che sono piuttosto oggettive, i diplomati non hanno oggi una formazione nemmeno sufficiente per la matematica, la semplice lettura, la capacità di risolvere problemi. E, cosa gravissima, non si comprende ciò che si legge: il 12% degli studenti è in grado di leggere unicamente “a pappagallo” un testo, ma non è in grado, proprio come accade ai pennuti, di comprenderne il significato.
A questo punto non c’è università che tenga: si rimane bloccati a un sapere composto da formulette ripetute a memoria, senza la possibilità di applicarle correttamente. Peggio ci troviamo con la matematica, ormai un reperto pedagogico. Chi scrive, fino a pochi anni fa, si divertiva a risolvere i temi di matematica dati alla maturità scientifica, ma quelli attuali sono talmente semplificati rispetto a quelli che abbiamo dovuto sopportare noi, che ho lasciato perdere.
La scrittura delle tesi di laurea è sempre piena di strafalcioni che avrebbero dovuto essere corretti alle scuole elementari. Ma oggi la cifra del nostro tempo non è la Ragione, ma tutte le frescacce sullo “stare insieme”, sul divertimento, sulle sensazioni, insomma su un lavaggio del cervello che sarebbe andato bene nel 1984 di Orwell. E quindi vediamo i dati, che riguardano la scuola “vecchia” ma che inficiano i risultati di quella nuova: il 36,5% degli italiani, oggi, ha al massimo, la licenza elementare, ma ben il 46,1% (è un’indagine dell’INVALSI) è in condizione di “illetteralismo” ovvero non riesce a comprendere un semplice testo. Solo il 20% della popolazione possiede, come di diceva, le competenze minime che si davano per scontate dopo le scuole dell’obbligo: leggere, scrivere, far di conto. Grazie proprio alla demagogia sessantottistica, la scuola, svuotata di ogni qualità, è poi ritornata a essere una “scuola di classe”: oggi, lo dice la Banca d’Italia, uno studente delle classi sociali più elevate ha sette volte la probabilità di essere iscritto a un Liceo di un suo coetaneo proveniente dai ceti più umili.
Cosa fare? Ormai è troppo tardi, saremo la periferia, anche culturale, di imperi europei o globali ai quali forniremo camerieri, qualche pizzaiolo, al massimo qualche gelataio. Era la profezia di Guido Carli che, guardando le bozze dei trattati europei sulla moneta unica, disse: “ci ridurranno a suonare il mandolino”. Ma qualcosa si può ancora fare, in fondo: collegare i finanziamenti alle scuole al numero degli iscritti, creare un sistema di valutazione nazionale delle scuole (e dei docenti) per portare le famiglie ad iscrivere i loro figli nelle scuole identificate come “migliori”. Per l’università, invece del crimine degli appelli mensili, un solo appello annuale, per ridurre il numero dei fuoricorso. Ma, ormai, temo che la crisi culturale italiana sia senza soluzioni credibili.