15 Novembre 2024
Culture Club

Colpire il virus poetico

Recentemente Edizioni ETS hanno inaugurato, nella sede di Palazzo Roncioni a Pisa, “Rossa Fiammante – Un anno di poesia” a cura di Alessandro Agostinelli. Nell’incontro dedicato alla poesia di Roberto Veracini, in conclusione, il curatore Alessandro Agostinelli ha sollevato un quesito, rimasto inevaso, che si può più o meno riassumere in questi termini: “Ora che abbiamo parlato di poesia, chiediamoci se, una volta usciti fuori da questa specie di cenacolo per addetti ai lavori, ci sia ancora spazio per la poesia, se ci sia ancora qualcuno veramente interessato alla poesia”.
La domanda è caduta nel vuoto, vista l’ora tarda e il tempo necessario per eventuali risposte.
Però questa domanda, o meglio questo dubbio, mi hanno fatto riaffiorare alla memoria un ricordo, legato a un anno. Il 1975.

Nel 1975 Montale ricevette il premio Nobel per la letteratura. Voglio riportare alcuni stralci del discorso che tenne durante la cerimonia di conferimento del premio.
“In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai  nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile.”  E ancora “ il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano “datate” e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell’attuale, dell’immediato (…) In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia? (…) Se s’intende per poesia la così detta bellettristica (produzione letteraria, dilettantistica, superficiale) è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è morte per la poesia.”
Ecco, Montale, nel 1975 aveva già previsto la pandemia di poeti/poetesse improvvisati che, senza le minime cognizioni di metrica e spesso ignorando gli illustri predecessori (dallo Stil nuovofino ai contemporanei) producono inutili libelli che, esaurite le poche copie, finiranno inesorabilmente vittime della critica roditrice dei topi.

Ma, a fare da argine alla tendenza bellettristica, ci sono poi personaggi come Agostinelli (ma in Italia ce ne sono altri) che con le sue collane, Poesiaprima, Serie rossapoi, ha recepito in pieno la seconda parte del discorso di Montale, facendoci conoscere importanti poeti stranieri come Sam Hamill e George Oppen e significativi poeti italiani come Roberto Veracini, Roberto Carifi e Tomaso Kemeny.
Certo, la sua è un’operazione d’avanguardia, di “militanza” (come si  usava dire un tempo), di nicchia; perché questi poeti, pur essendo molto bravi, non sono certo conosciuti dal grande pubblico.
Ecco, ma il grande pubblico, oltre a non conoscere questi poeti, non conosce neppure Dino Campana, Guido Gozzano, Amelia Rosselli, Alda Merini … a essere ottimisti.

E allora? La poesia non ha mercato, circola per canali sotterranei ed è un prodotto riservato a pochi. Lo stesso discorso vale anche per la narrativa. Ogni giorno escono 10/20 titoli nuovi di autori sconosciuti che vanno ad intasare, quando ci arrivano, gli scaffali delle librerie.
Oggi, chi scrive poesie (i poeti improvvisati) lo fa soprattutto per un piacere personale, è una forma di autoterapia psicoanalitica più economica e questo vale anche per la valanga di nuovi narratori che, grazie al selfpublishinginondano la rete e non solo con i loro deliri ebefrenici. Ci sono migliaia di giallisti in circolazione (che non hanno mai letto né Simenon né Chandler) e migliaia di poeti tardo romantici, surrealisti, pseudo futuristi.
Altro che coronavirus!

E allora, come difenderli, come farli diventare immuni?
Beh, la ricetta è semplice, ma non è alla portata di tutti.
La cultura, la conoscenza, lo studio sono i filtri naturali, le mascherine che ci difendono dal virus dell’imbecillità.
Se uno/una vuol scrivere poesie senza aver letto Dante, senza conoscere la metrica, ignorando i poeti di ‘800/900” (italiano e straniero), convinto che il “verso libero” sia il lasciapassare per blasfemie grafiche, allora va messo in quarantena, isolato!
Lo stesso dicasi per i narratori post moderni che non hanno letto Boccaccio e credono che Raymond Carver sia l’ultimo acquisto dell’Inter… e il discorso sarebbe lungo.

C’è solo un termine per arginare il contagio: DISSUASIONE!