Si vis virus para bellum
La più grossa panzana che si possa dire in merito a questa situazione è che non sia una guerra!
Lo è. Diciamo che non è la solita guerra.
Vediamo un po’ perché: i termosifoni vanno, acqua ed elettricità arrivano regolarmente, i supermercati sono pieni, le persone distanti ma gentili, nessun allarme di antiaerea, mentre mangio non devo temere che mi arrivi una bomba in testa, niente mercato nero, anzi la criminalità è calata di oltre il 60% in poche settimane, e l’aria è più pulita, leggera, in alcune città del nord il cielo è tornato azzurro, le acque dei fiumi limpide, e ogni giorno ci si può fare una lunga bella doccia calda. Niente mendicanti in giro, niente sfollati in giro, né case fumanti, né ponti crollati, morti sbudellati, carogne di animali, niente di niente.
Tifo petecchiale, colera, setticemie varie? Niente di niente.
Quello che mi fa pensare a una guerra è il coprifuoco che vige 24 ore su 24, il viavai di lucenti autoambulanze lungo i viali in fiore, l’aggiornamento minuto per minuto dei morti e dei contagiati che i professionisti dell’informazione, rosei e pasciuti, forniscono puntualmente. Mi affaccio alla finestra e vedo la distesa serena dei tetti su cui scendono le pallide ombre della notte fra i lampioni che illuminano una città abbandonata: una strana notte serena come tante.
Allora, dico io: se qualcuno ha un’immagine vecchia della guerra se la deve rifare. Sento già i più critici: non si tratta di guerra ma di qualcosa che non sanno raccontarci diversamente, o non voglio-no… perché c’è qualcosa da nascondere.
Siccome io non sono un dietrologo complottista, perché credere a quello che mi dice la televisione mi fa sentire protetto, mi fa stare bene, in una comunità che mi vuole bene, non credo alla seconda ipotesi, concedo un po’ di credito alla prima. Non sanno raccontarla diversamente! Ma sì, chiediamo troppo ai politici: che problema è se hanno limitate capacità interpretative? Le ho anche io, che li voto. E cosa si può rimproverare ai giornalisti, preoccupati dello share? Mah! È una guerra contro un nemico “invisibile”, lo hanno capito gli americani, che da veri cow boys hanno deciso di fare incetta di armi e munizioni per affrontare il vairus. Di loro possiamo fidarci: se hanno vinto due guerre mondiali, perché non dovrebbero vincere anche quest’altra?
Gli unici che potrebbero parlare di “guerra”, in senso metaforico ovviamente, sono i medici, gli infermieri e i numerosi volontari impegnati in turni massacranti ad arginare l’afflusso di pazienti che con sintomi più o meno gravi di covid19 vengono ricoverati: loro il nemico lo vedono bene, almeno al microscopio. E invece, siccome è gente seria, non ha tempo da perdere in simili sottigliezze, proprio loro non parlano di guerra! E a riprova non vanno in giro con rivoltella e giubbotto antiproiettile, bensì con tutta la pazienza e la prudenza richieste in situazioni del genere. Secondo me sono un modello di senso civico! (Ma il senso civico ha “senso” in una guerra?)
Mentre scrivo queste cose, mi accorgo che sono seduto già da molte ore: ho sbrigato la posta, ho rivisto le lezioni, ho assolto ai miei doveri. Basta. Devo fare due passi, giusto per respirare un po’ d’aria, sentirmi scorrere un po’ di sangue nelle vene. Non ho appuntamento per uno spritz in un locale chiassoso al centro, e non mi passa neanche per la testa di cercare un luogo affollato dove tracannare un paio di birre. Dove vado? Anche i parchi sono chiusi.
Torno ad affacciarmi al terrazzo. Se starnutissi ora si sentirebbe il rimbombo. Che pace, che ordine. Per le strade non c’è un cane morto. Diligentemente le forze dell’ordine mi fermeranno per chiedermi dove vado: se dirò che vado in chiesa a pregare o al cimitero a trovare i miei morti, o che faccio un po’ di jogging, perché altrimenti mi sento male, dubito che mi faranno proseguire; se invece dico che vado a comprare le sigarette (che danno avvelenano te e chi ti sta vicino) mi lasceranno andare. Dirò senz’altro che ho bisogno di sigarette. In fondo, contribuisco anche alla causa dello stato…
Quanto vorrei fare un salto a trovare i miei genitori, magari vederli dietro la grata della porta blindata! Blindati in casa come due megalingotti ottuagenari di una specie in estinzione, di un’epoca lontana… Ieri li ho sentiti un po’ giù: a mia madre faceva male un’anca per eccesso di sedentarietà; mio padre era inquieto e girava in casa contando i passi e i minuti alla fine della giornata. Li sento ogni giorno e l’unica cosa che so dire è: “finirà”, “prima o poi finirà…” Come posso chiedere loro di fare stretching come il provvido avviso che gira in televisione raccomanda?
Bando al sentimentalismo! Andrò a comprare le sigarette, anche se non fumo, e non dimenticherò di farmi dare lo scontrino dal tabaccaio per esibirlo in un eventuale nuovo controllo, perché non vorrei sporcarmi la fedina penale solo perché volevo fare due passi.
Mi ha risollevato, ieri, leggere un illustre sociologo francese, un post-apocalittico integrato, che ha detto chiaro e tondo, in un suo intervento di straordinaria profondità su un’importante rivista ita-liana, che siamo proprio in “guerra”! Lo immagino seduto, con l’inquietudine che si addice al tuttologo engagé, sulla poltrona girevole del suo studio, in una Parigi insolitamente silenziosa e luminosa che si accende dei colori e dei profumi della primavera – lo immagino seduto a scrivere, con l’acrimonia dialettica di un lettore del vecchio inossidabile Hegel, contro i complottisti: “…sí, questa è una guerra!”; e dare ragione a Macron, che fino a ieri considerava un cerebroleso: “…sí, è proprio quella guerra che ho sempre sognato!
Ora potrò dire, a mio padre e ai miei nonni, quando li incontrerò, che ho avuto la mia guerra mondiale; e racconterò ai miei nipoti queste dure giornate trascorse nella trincea dello studio ingombro di libri, fra una passeggiatina in salotto e una sul pianerottolo; racconterò che ho provato in tutti i modi ad avvertire il mondo che dopo non sarà più come prima… Sì, è la guerra che un giorno avrebbe dovuto affrontare questa sporca borghesia, questa Europa sfruttatrice, danarosa, e sempre divisa…”
A un certo punto si accorge che il caffè si è raffreddato; si alza. Riscaldarlo non fa bene alla salute: se ne farà un altro con una mistura arabica speciale appena comprata nel reparto prodotti esotici del supermercato sottocasa; si accende un’altra sigaretta. “Dov’ero rimasto? Ah sì… Allons, enfans! A là guerre comme à la guerre!” Ecco farò come lui.