24 Novembre 2024
Words

C’era una volta il lavoro

Festa del lavoro. E del riposo dal lavoro. Che festa è? Che festa è stata?
Il lavoro ormai è a termine. C’erano i Co.Co.Co., Co.Co.Pro., voucher; ci sono lavori interinali, contratti stagionali, prestazioni occasionali, contratti a tempo determinato. In una parola il lavoro è precario. Quindi festeggiare il lavoro vuole dire festeggiare la precarietà: il precariato; il transitorio, il transeunte, il transito da un contratto che dura poco (pochi mesi, pochi anni) a un contratto che, forse, dura ancora meno.
Inutile stare a riflettere e pensare di chi sono le colpe oppure, se colpe non ci sono, di chi è la responsabilità della globalizzazione. Inutile stare a prendersela con la politica; inutile stare a prendersela con i mass-media. La verità è che oggi stiamo festeggiando il precariato. E quindi stiamo festeggiando qualcosa che un momento è in un modo e il momento dopo non lo è più. Qualcosa che passa. Come un colpo di tosse o come la vittoria al “Gratta&Vinci”…

Che senso ha pensare che precariato non può essere altro che la risultante di un certo stato di cose? Certo noi volevamo un lavoro solido, fermo, duro, d’acciaio. Un posto fisso, come quello dei nostri padri. Dei nostri nonni. Ma ci accorgiamo, se ce ne accorgiamo, che le cose sono cambiate. Anche il 1° maggio non è più quello di una volta. Oggi si chatta, siamo in Rete, ci si fa fidanzati navigando, si fanno acquisti su Amazon: antropologicamente non è che noi siamo cambiati, è che gli eventi, la storia ci hanno cambiato la faccia. E allora che fai? Te la prendi con la storia? La storia è quella cosa che non puoi negare. Se io ho ucciso un uomo questa è la mia storia. Se sono stato un bravo cittadino questa è la mia storia.

Allora tocca cominciare a festeggiare questo lavoro mobile e morbido, questo lavoro transitorio e millefacce: questa specie di lavoro che a volte c’è e a volte non c’è. E nessuno sa perché. Noi siamo pronti a festeggiarlo perché anche questo è lavoro. Ne muta la forma, ne muta la consistenza ma non ne muta l’essenza. Si tratta, anche in questo caso, di lavoro. Cioè di quella cosa che produce l’energia necessaria a tirare avanti. Occorre lavorare – in queste mutate condizioni –perché non sappiamo fare altro. Non sappiamo dire altro. L’intera società non sa dire altro.
Festeggiamo questo “lavoro immateriale” (come diceva Toni Negri), questo lavoro invisibile e astratto; stonato e circonfuso come una poesia. Sono gli anni questi del lavoro poetico, della danza delle ore e dei giorni, delle opere e dei segni: lavoro poetico immateriale e astratto. Lavoro che hai nella pelle, ma che non puoi avere nella testa. E il nostro ricordo va pure ai caduti del lavoro, ai martiri del lavoro, ai professionisti che non ce l’hanno fatta.
Festeggiamo questo lavoro effimero e festeggiamo questo lavoro straordinariamente e fortemente incagliato nelle nostre vite e che dovrebbe farci sentire bene, dovrebbe farci stare bene. Chissà che lavoro potremo immaginarci nel prossimo futuro!

Gianfranco Cordì

Gianfranco Cordì (Locri, 1970), ha scritto dodici libri. E' dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista pubblicista. Dirige la collana di testi filosofici "Erremme" per la casa Editrice Disoblio Edizioni. Dirige le tavole rotonde di filosofia del Centro Internazionale Scrittori della Calabria.