Piano Colao: dategli champagne…
Ho partecipato ad almeno quindici convegni negli ultimi anni, in cui si dicevano le cose che ho letto nel Piano Colao. Non per questo, ovviamente, si tratta di errori o di indicazioni fuori luogo. Solo che, da vecchio leopardiano, sono poco incline alle “magnifiche sorti e progressive” preconizzate proprio dal cugino di Giacomo, Terenzio Mamiani. Vediamo meglio.
Produttività nazionale
In primo luogo, nel testo della Commissione Colao c’è la scarsa produttività italiana. Vero. La produttività italiana cresce oggi dello 0,3% medio annuo, quindi niente. Perché? Semplice, siamo al 51° posto della classifica doing business dell’OCSE. In Italia fare impresa è una tortura cinese, di quelle fatte con gli aghi nel cuore, come facevano quelli del Servizio durante la fase delle Guardie Rosse, appunto. Siamo anche 112esimi nell’accesso al credito, sempre in base ai dati OCSE. Per farsi dare soldi da una Banca, è molto meglio pregare che andare in filiale. Poi ci sarebbe la frammentazione del tessuto produttivo, le troppe e inutili lauree che non hanno niente a che fare con il mondo contemporaneo (ma spesso nemmeno con quello tradizionale: la maggior parte dell’università italiana fa ormai ridere i polli). Quindi la produttività bassa non è una maledizione biblica, ma ha radici complesse e ben note da anni.
Debito pubblico
Il rapporto debito-Pil è altissimo, lo dicono giustamente tutti. Nel secondo dopoguerra il rapporto debito-Pil era del 33%, e c’erano anche le autostrade del Sole da completare (prima della scadenza, peraltro). Il boom economico è stato pressoché senza inflazione. Però nel 1968 il rapporto debito-Pil era già al 41%, in zona pericolo, ma abbiamo chiuso, unici in Europa, 22 bilanci pubblici in attivo su 23, solo tra il 1995 e il 2017. Il fatto è che il debito non riusciamo mai a riassorbirlo, e si ricrea subito, soprattutto per motivi internazionali.
Inoltre sono state introdotte, soprattutto dagli anni ’80, spese automatiche che sono incompatibili anche con le più rosee ipotesi di crescita economica. Quindi, la crisi del debito è soprattutto una crisi di leadership politica e di incompetenza tecnica (dei politici). La scarsa efficienza della macchina pubblica che ne deriva è, anch’essa, una vecchia scelta politica: si trattava di creare una pletora di lavori inutili che garantissero clientele elettorali stabili. Certo, c’era la guerra fredda, ma si poteva far meglio e con molti meno soldi. Assorbire taluni bischeri del ’68 nelle scuole, rovinandole definitivamente, è costato un oceano di soldi; creare lavori inutili per i “paglietta” meridionali, come li chiamava Gaetano Salvemini, lo stesso. E qui ci abbiamo messo un secolo e più. Il senso di queste operazioni sarebbe questo: o si assorbiva, con lavori superflui, la grande massa della rivolta o della fannullaggine, o sarebbe stato ancora peggio.
Economia sommersa
Sempre nel Rapporto Colao, si cita la questione dell’economia sommersa. Siamo al 13%, secondo i dati più ottimistici, una percentuale che vale circa 210 miliardi di euro. I lavoratori irregolari, peraltro, sono oggi 3 milioni e 701 mila. In Germania sono a 6,8% di sommerso e in Francia a 8,3%. Nemmeno loro stanno bene, ma noi stiamo peggio.
Purtroppo, come dicono tutti gli economisti dello sviluppo, ridurre il lavoro nero nei Paesi arretrati (come il nostro Sud) riduce anche, e tutta intera, l’attività produttiva. In breve: solo se il lavoro costa pochissimo lo si può mantenere, altrimenti aumenta la disoccupazione anche nel nero, e allora siamo da capo con i problemi.
- Siamo proprio sicuri che l’eccesso di lavoro nero non derivi anche dall’eccessivo costo del lavoro legale in rapporto alla bassa produttività?
- Siamo davvero certi che l’eccessivo carico fiscale non metta in difficoltà le aziende legali, nei confronti delle fabbriche “nere”, attivando così una concorrenza interna?
Senza l’economia sommersa l’Italia perde 540 miliardi di euro, il 35% di quello ufficiale. Inoltre, il Pil dell’economia criminale è di 250 miliardi, da aggiungere al conto. La scomparsa del sommerso (con l’arrivo di Covid-19) è l’abolizione del vero e quasi unico ammortizzatore sociale che funziona oggi in Italia. Certo, il nero evade il fisco, ma siamo sicuri che la quota di evasione (110 miliardi) se fosse recuperata, sarebbe pari al costo delle provvidenze necessarie per sostenere chi non ha più nemmeno un lavoro nero? Non credo.
Disuguaglianze
Il Piano Colao parla poi delle disuguaglianze di genere, sociali e territoriali. Non siamo in un’assemblea studentesca: proclamare l’ingiustizia non significa risolverla. C’è anche il basso tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro, infine un numero molto elevato di giovani che non studiano e non lavorano. Tutto verissimo, ovviamente. Ma “i paradisi perduti sono fatti di banalità ritrovate dalla gente sbagliata”, come diceva Gozzano.
Vediamo meglio: le donne hanno una ricchezza personale minore del 25% rispetto a quella degli uomini. Ma c’è di più. Nel quintile statistico più povero, le donne e gli uomini hanno lo stesso reddito, in media, ma la situazione si inverte mano a mano che aumenta il reddito della coppia. Dai dati di Banca d’Italia, nei settori statistici più benestanti la ricchezza dell’uomo è maggiore del 56,8% rispetto a quella della donna, ma le donne guadagnano di meno perché più spesso ricorrono al lavoro part time. Peraltro i titoli di studio in possesso delle donne sono maggiori di quelli in possesso degli uomini (il 63% delle donne ha almeno un diploma) e il 21,5% ha una laurea.
Il problema è un altro: quale laurea? C’è ancora oggi una fortissima sotto-rappresentazione delle donne nelle facoltà scientifiche e professionali, con un solo il 30% di iscritte nelle facoltà delle scienze “dure” e addirittura meno del 20% in quelle di ingegneria.
Eccolo, il gap! Verrebbe da dire: si studino meno “minchiate” e vedrete che presto il divario nei salari tra donne e uomini laureati diminuirà.
Il divario sui salari tra donne e uomini da noi è il 5%. Le donne guadagnano meno perché sono numericamente meno nel mondo del lavoro, quindi hanno meno forza sindacale. E hanno inoltre carichi personali, familiari, sociali tali da rendere meno probabile la loro carriera, secondo la logica idiota da darwinista sociale da cortile tipica del management contemporaneo. Qui Colao e la sua Commissione hanno ragione da vendere.
La terapia?
Ciò di cui abbiamo parlato finora è diagnosi. Il Piano Colao è anche un progetto per il futuro. Infatti, secondo la sua commissione il rilancio del Paese dovrebbe passare da un “Fondo per lo Sviluppo”, dotato di 100/200 miliardi (cifra non molto precisa…) ma gestito integralmente da Cassa Depositi e Prestiti. Come si fa a “riempirlo” di soldi? Regioni, Stato, Province, Comuni conferiranno a questo Fondo i loro immobili. Tra tecnici se ne parlava una ventina di anni fa. Benvenuto Colao!
Altra idea: il ricorso alle riserve auree della Banca d’Italia. Che sono moltissime (2451,8 tonnellate) un valore che pone l’Italia quarta (compreso il Fondo Monetario) e comunque terza come Paese, dopo Usa e Germania, come detentore di oro – grazie ai bravissimi tecnici di Via Nazionale. Il problema è che siamo parte del Sistema Euro e quindi le nostre riserve auree possono essere utilizzate per interventi sul mercato dei cambi, ma secondo l’art.127 del “Trattato sul Funzionamento della Unione Europea” sono soltanto parte integrante dell’Eurosistema e non disponibili per finanziare chicchessia.
La riserva aurea è legalmente utile al mantenimento del valore (quindi il contrario di quello che scrive la Commissione diretta da Colao) e della liquidità delle riserve, è controllata dalla BCE (art.123 del Trattato) ed è collegata al divieto dell’uso per il finanziamento monetario. Quindi, ripeto, non può essere utilizzata per ciò che vorrebbe Colao. In più le quote di questo “Fondo” dovrebbero essere messe a garanzia dei crediti concessi alle imprese. Naturalmente questi nuovi titoli dovrebbero poter essere venduti agli investitori esteri, facendo così concorrenza pericolosa ai nostri titoli del debito pubblico, che sono l’unico canale che oggi il sistema BCE ci concede. Il mito della cornucopia dei mercati finanziari? Probabile.
Altra questione, tale denaro dovrebbe essere investito nella mitica industria 4.0 e non in altre. Nel 2018, il 4.0 valeva 3,1 miliardi, cioè noccioline. Tali sforzi di finanziamento erano tutti fortemente sostenuti da piani governativi. Oggi siamo al 26% in più, ma sempre con corposissimi incentivi. Non è che stiamo creando un mito dai piedi d’argilla?
È vero che le nuove tecnologie creano nuovi posti di lavoro mentre li distruggono, ma è anche vero che la distruzione creatrice di schumpeteriana memoria vale nelle lunghe generazioni, non nei tempi di una vita. In altri termini Colao dice una cosa sola: liquidiamo il patrimonio dello Stato per sostenere le poche aziende che sopravviveranno alla prossima ondata della globalizzazione. In altre parole chiede di usare la ingentissima ricchezza pubblica (peraltro mal calcolata), che serve pure a garanzia dei debiti degli enti locali (che crollerebbero), andrebbe alle imprese private.
A fronte di questo certo aspetto negativo, non è detto nemmeno che la terapia Colao salverebbe i cosiddetti nostri “campioni nazionali” (cioè le imprese italiane più forti), che si troverebbero meno investimenti e tassi più elevati.
Invece, per le imprese che non hanno la grazia santificante di essere 4.0, solo incentivi fiscali, utili quando entrano soldi veri, quando c’è ricerca e sviluppo o quando alcune imprese si fondono tra loro. In sostanza una chimera. La vedo dura per le nostre PMI. E la vedo dura anche per l’Italia.