Esterina, una normale meraviglia
Questa estate del 2020, l’estate della pandemia, è diversa da tutte le altre che abbiamo vissuto. È difficile ritagliarsi anche poche ore in cui ci si dimentica completamente di quello che sta succedendo, di quello che è successo, di quello che ancora potrebbe succedere. Però può capitare di scordarsene.
Per esempio venerdì 24 luglio, al terzo Concerto di Rietto degli esterina, a un certo punto mi sono guardato intorno, ho respirato l’aria fresca della campagna, e mi sono reso conto di essere nel bel mezzo di un momento sereno, uno di quelli di cui magari di solito non ti accorgevi, e che ora diventano così preziosi.
Gli esterina sono una band della provincia di Lucca. La loro terra è quella che scende dalle colline che guardano il lago Massaciuccoli e la Versilia e attraversa la piana fino alla città delle mura. Nel loro caso la collocazione geografica non è un dettaglio trascurabile, sia per i toscanismi (iper-locali, si direbbe oggi, perché tutti sanno che già a Viareggio si parla diverso da Lucca) sparsi senza esagerare nelle canzoni, sia perché i campi, la semplicità della vita di paese, la ricerca di un punto di osservazione storto sono da sempre parte della cifra che sta nelle loro canzoni. Una storia che finora conta quattro album, più un live e un ep in vinile, dal 2008 a oggi. Musicalmente invece gli esterina stanno in un territorio di cui non è facilissimo tracciare i confini, ma insomma tra il post-rock e i richiami cantautorali, tra le suggestioni della migliore musica indipendente italiana degli ultimi tre decenni e la tradizione più nobile della canzonetta. I loro pezzi spesso hanno una parte iniziale in cui le parole sono padrone degli spazi, e vengono sottolineate da suoni centellinati (le chitarre, con un “taglio” molto caratteristico, su tutto), e una seconda parte in cui il cantato si dirada, e in cui il gruppo prosegue il racconto con la musica, ampliando ed elaborando piccoli temi fatti balenare nelle prime battute.
In una dozzina d’anni gli esterina hanno costruito una casa usando vecchi mattoni che vengono dai ricordi, dalla storia spicciola, dagli scaffali pieni di dischi, ma è venuta fuori una casa tutta loro, che si riconosce fin da lontano. A frequentarla è un pubblico, come spesso succede per realtà come queste, affezionatissimo, anche se tutt’altro che oceanico. Ogni anno nella sera di Natale la band suona per beneficenza intorno a Lucca, scegliendo ogni volta un posto diverso e legando sempre l’occasione a un’iniziativa della Caritas locale. Il luogo e l’ora vengono annunciati con pochissimo preavviso, eppure in tanti sanno che prima o poi l’appuntamento verrà dato, e ogni volta si sta stretti e spesso qualcuno rimane fuori perché non c’è abbastanza posto, che sia una piccola chiesa cadente riaperta per l’occasione nel centro storico o un capannone industriale riconvertito a laboratorio artigianale che ripara le cose rotte.
Nel corso del tempo gli esterina hanno visto qualche modifica alla formazione, ma la sostanza è rimasta più o meno la stessa. Il primo album, “diferoedibotte”, cominciava con la chitarra rock di “Senza resa”, un pezzo di cui Edda, all’anagrafe Stefano Rampoldi, ha detto che “dovrebbe essere suonato prima delle partite della nazionale di calcio al posto dell’inno di Mameli” e che dichiarava subito le velleità nei primi versi: “Sbattono persiane al vento le mie ossa/Chiamano la terra che con sé mi porta/Dicono di me che sono acqua sporca/Ridono di me che sono solo crosta/Spillano di me quello che li rivolta/Spogliano di te il fiore rotto in bocca” per poi frenare in un refrain di quelli che non ti si schiodano dalla testa per settimane “Senza resa/Scavare nella carne vie d’uscita”.
Ma per capire il linguaggio, le aspirazioni e le ispirazioni “di vicinato” degli esterina, forse è utile la seconda canzone, “Fero”, che comincia così, mentre le lame della chitarra disegnano un palcoscenico: “Storge il fero per il cancello/Salda il danno di lamiera/Alla casalinga poco sincera/Al vagone di gente che piange e si recinta/Canta gli occhi chiusi/Prega con gli sputi”. In una strofa così c’è un po’ della materia di cui sono fatti gli esterina: inutile cercare il significato di ogni passaggio, si tratta di prendere i versi più luminosi, quelli che risvegliano qualcosa dentro di noi, magari storie ascoltate dai nonni e dimenticate.
Come per “12 agosto”, una delle canzoni forti del secondo disco, “Come satura” (2011), che ricorda la strage di Sant’Anna di Stazzema, ma lo fa raccontando una nostalgia intima, concedendo solo poche parole, poco più di un flash istantaneo, alla memoria di quella tragedia indicibile, dichiarata nella data del titolo: “Dicono che ormai il paese/In piazza brucia, il sangue crepa/Sulla soglia di ogni giorno/Anche quel giorno venne notte”.
In “Dio ti salvi” (2015), il terzo album, l’unico uscito anche in versione 33 giri, c’è per esempio una formidabile indagine del desiderio (“Pantaloni corti”): “C’è chi ti può e chi ti cerca/Chi non può far altro/Che guardare mentre vanga in un altro campo/C’è chi ti può e chi ti cerca/Chi ha mentito e fischia/Con quel pezzo di mollica trafugato in tasca/C’è chi ti può e chi ti cerca/Chi non si dà pace/Che ha dovuto imbastire un altro desiderio/E non gli piace”.
Sempre da questo disco potete ascoltare “Sovrapporre” se invece volete conoscere gli esterina che si liberano dalle parole e chiudono i brani con una lunga coda strumentale, mostrando ordito e trama della loro tessitura musicale. Un po’ come fa “Esterno notte” dall’ultimo “Canzoni per esseri umani” (2018), in cui c’è una canzone, “Meraviglia normale” che in qualche modo è un manifesto per questa band: “Chiudi la porta/Ti strappi gli occhiali/La strada trabocca/Di bestie normali […] Dipende solo da te/Il tentativo migliore/La meraviglia che c’è/Nella vita normale”.
Quando suonano dal vivo gli esterina sanno mostrare diversi lati del proprio carattere. Hanno la scaletta “bombardona”, come la chiama Fabio Angeli, cantante, chitarrista e autore (che ha accanto Massimiliano Grasso – piano Rhodes, tastiere ed elettronica, Giovanni Bianchini – batteria, Daniele Pacini – basso, e Luca Giometti – chitarra, tastiere ed elettronica), la setlist che usano per i festival, per quando bisogna girare verso destra la manopola degli amplificatori e trasmettere un po’ di elettricità al pubblico. E poi hanno i concerti come quelli di Rietto, nati dall’esigenza di non fermarsi nemmeno nell’estate della pandemia. Cinque date a casa propria, in un prato accanto al fienile in cui di solito fanno le prove, in un angolo di Massarosa che sembra sperso nella campagna anche se in realtà è a duecento metri dalla piscina comunale e da un pullulare di bar e pizzerie. Quaranta, cinquanta persone, sedute a coppie sulle presse di fieno, rigorosamente distanziate sotto le stelle accese dai filari di lucine elettriche, una specie di controsoffitto delle stelle vere, che si vedono quando alla fine della serata si stacca la corrente e restano solo le ultime birre fresche in fondo alle casse di polistirolo. I primi tre concerti sono già passati, i prossimi sono in programma il 14 e il 21 agosto, e c’è ancora un po’ di posto. Può essere una delle soprese più belle di questa stagione balorda.