23 Dicembre 2024
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Elsa Morante, La Storia, Einaudi, 1974-2014, pp. XXXII-672

Ho finito di (ri)leggere “La storia” di Elsa Morante. Le ragioni che nel 1974 mi avevano portato a considerare quel libro un po’ retrò le ho ritrovate tutte, ma a distanza di 46 anni, e con l’effetto prospettico che il tempo trascorso e la mia accresciuta esperienza di lettore determinano, sono in grado di capire anche che quel giudizio è almeno in parte riduttivo.
Si tratta di un romanzo di 750 pagine, lungo come “I promessi sposi”, con una voce narrante onnisciente che si presenta come interna ( dice di aver conosciuto i personaggi e di aver fatto ricerche su di loro) ma che in realtà non compare mai nella vicenda.
La prospettiva da cui vengono narrati gli eventi ( sostanzialmente incentrati sulla breve esistenza di Useppe, che muore nel giugno del 1947 dopo essere stato concepito nel gennaio 1941 da un soldato tedesco di passaggio a Roma che stupra una maestra vedova trentottenne a cui dice solo il proprio nome di battesimo, e pochi giorni dopo muore in un combattimento aereo nel Canale di Sicilia) è una prospettiva epica, analoga a quella di “Guerra e pace”: le vicende dei personaggi vengono fatte emergere lentamente da una coralità che investe in pieno le vicende storiche di quegli anni mescolando alto e basso.
Il sistema dei personaggi è affollatissimo: accanto a Ida Ramundo, la madre, e ai figli Useppe e Nino, che lei ha avuto dal precedente matrimonio e ha 15 anni al momento della nascita del fratello, e a un altro personaggio centrale, Carlo Vivaldi/Piotr/Davide Segre, di cui si scopre molto lentamente l’effettiva identità e che rappresenta l’intellettuale irrimediabilmente scisso e incapace di riconciliarsi con l’esistenza, vengono caratterizzati con precisione tutti gli inquilini e i vicini delle varie dimore in cui la famiglia vive o si rifugia durante la guerra, i personaggi che Ida incontra durante le sue uscite alla ricerca del cibo, gli animali (i cani Blitz e Bella, la gatta Rossella, i canarini Peppiniello e Peppiniella), che hanno anch’essi un pieno trattamento da personaggi, i ragazzi incontrati da Useppe e Bella durante le loro scorribande lungo il Tevere della primavera estate del ’47, a cominciare da Scimò, un adolescente che sembra ricalcato su alcune figure pasoliniane.
I riferimenti letterari si sprecano: tra i sogni di Ida e di Useppe di cui il romanzo è pieno ho rintracciato rimandi a Svevo, al sogno manzoniano di Don Rodrigo e ce ne sono anche altri; il discorso di Davide Segre nell’osteria ricorda, almeno strutturalmente, quello di Ivan Karamazov sul grande inquisitore, e sicuramente chi studiasse il testo troverebbe una rete fittissima di rimandi intertestuali.
La scrittura non punta affatto all’essenzialità: è avvolgente, indugia nelle descrizioni, non rinuncia né al lirismo né all’enfasi, gioca sia col linguaggio infantile sia con la patina dialettale del parlato di molti personaggi.
Insomma: ce n’è più che abbastanza per pensare alla riproposizione, 100 anni dopo la fine di quella stagione, dell’idea del grande romanzo naturalista come sintesi dell’universo.
E però è proprio quell’idea che viene smontata dall’interno, e di questo non mi ero accorto, e sicuramente non avrei potuto farlo, nel 1974: la storia non ha una direzione, l’oppressione sopravvive riproducendosi in forme diverse all’eliminazione delle forme più brutali che aveva assunto; Nino rappresenta una spinta vitalistica tipicamente giovanile che, nonostante il personaggio muoia a 20 anni, passa con facilità dal fascismo avanguardistico alla militanza comunista durante la Resistenza, per poi approdare nel dopoguerra a un affarismo abbastanza equivoco che non ha nemmeno le motivazioni di delusione postresistenziale presenti nell’Ettore de “La paga del sabato” di Beppe Fenoglio; Davide Segre fa un lungo e confuso discorso teorico sull’anarchia, sul riprodursi dell’oppressione e del fascismo anche nei contesti apparentemente più lontani; riflette sul proprio complesso percorso esistenziale di ribellione a una famiglia di borghesi ebrei benestanti, da lui visti come oppressori dei ceti subalterni, che però sono stati sterminati ad Auschwitz; arriva addirittura a proporre idee spinoziane sull’identificazione tra Dio e la natura e a identificare il Cristo con ogni oppresso, ma non prende sul serio se stesso (si sottolinea continuamente l’elemento di posa e di gioco che c’è nel suo interloquire); non è preso sul serio dalla voce narrante, che richiama continuamente il fatto che egli parla sotto l’effetto del vino e (soprattutto) di stupefacenti; è ascoltato distrattamente dagli avventori domenicali dell’osteria, presi dal tressette, dalla radiocronaca delle partite di calcio, dai programmi musicali; è ascoltato con attenzione solo dal bambino Useppe e dalla cagna Bella, che non capiscono una parola del suo discorso, ma comunicano con lui attraverso l’affetto.
I due personaggi più vicini all’autrice sono sicuramente Ida e Useppe, che rappresentano un’identificazione semplice, e pure drammatica, con la vita. E mentre Ida è un po’ troppo appiattita sullo stereotipo della “mater dolorosa”, Useppe è veramente un personaggio meraviglioso: il bambino-poeta che inventa la propria lingua e costruisce le proprie coordinate del mondo.
Purtroppo, come a volte accade, le buone idee mi vengono fuori tempo massimo.
Non potrò farne niente, perché vado in pensione, ma proporre in parallelo due testi diversissimi, come “La storia” del 1974, ultima, problematica e internamente contraddittoria riproposizione del romanzo ottocentesco, e ”Se una notte di inverno un viaggiatore” di Calvino del 1978, che destruttura completamente la forma del romanzo, sarebbe stato un bel modo di presentare la cultura italiana degli anni’70, il decennio in cui è veramente cambiato tutto.