19 Dicembre 2024
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Tiziano Fratus, Sogni di un disegnatore di fiori di ciliegio, Aboca spa, 16 euro, pp. 231

Fratus abita tra la carta e la corteccia. La sua figura ha perso la capigliatura riccia e selvaggia di qualche anno fa, per diventare minimale, prossima alla calvizie autoimposta. Vive vicino al bosco e di mestiere fa il dendrologo scrittore, cioè colui che studia e osserva con amore meditabondo gli alberi, le piante, le nostre radici vegetali impresse fino al cuore della Terra e ne scrive per riportarle alla parola necessaria della vita relazionale.

L’autore
Sono anni che ci conosciamo e quando penso a lui, all’homo radix, spesso mi vengono in mente i naturalisti novecenteschi più che i letterati. Fratus è appartato e noioso, ingenuo e geniale, se ne frega ma va al punto. Tenace con la costruzione della sua carriera, lamenta spesso la perdita di belle maniere di un mondo culturale che ha attraversato in lungo e in largo: come pochi ha pubblicato per tutti i grandi editori italiani. Adesso, ben piantato in orizzontale, cerca una via buddista alla fine, perché noi sappiamo che la fine c’è sempre e prima si riesce a trovarne il percorso, prima possiamo misurare la nostra competenza umana e scritturale.
Fratus ha scritto un libro di poesie e prose che lui chiama “boschi miniati”. Sogni di un disegnatore di fiori di ciliegio è pubblicato da un editore speciale, Aboca, che da produttore di rimedi fitoterapici si fa pure portatore di cultura letteraria, attraverso le sapienti scelte di Antonio Riccardi.

Il libro
Oggi molti scrivono poesie che non hanno verso né musicalità di poesia e comunque vanno a capo inutilmente – tanto che verrebbe da chiedere perché non scrivono tutto in fila, come un normale testo. Ecco, Fratus sa che serve un ritmo alla poesia, così sceglie di scriverle in forma di foglia o di bomba atomica o di seme. Quindi queste figure pareidoliche del libro di Fratus, che sono azzeccatissime perché ne rappresentano il significante, dimostrano come oggi la poesia sia prodotta in massima parte per prose poetiche che non avrebbero bisogno di andare a capo.
La poesia d’avvio Bosco itinerante è molto bella: “C’è un bosco che mi abita dentro, un silenzio cantato e interminabile, ruscelli che scorrono e animali che corrono […]. Sono un bosco che cammina […]”. Questa poesia ci dà il segno che Fratus è rimasto un po’ bambino, o almeno ci prova.
Interessante anche il secondo “bosco miniato”, dal titolo Adorazione dell’istante, dove si palesa lo spirito ecologista dell’autore, con quel “chiedo scusa al filo d’erba e chiedo scusa all’usignolo che batte le ali in gabbia e chiedo scusa al ruscello di cui ho deviato il corso”, ecc. Il testo è una cronaca puntuale di questo lungo deperimento cui abbiamo obbligato e stiamo obbligando il pianeta. E tuttavia l’autore è conscio del fatto che il nostro passaggio reclami sacrificio.
La terza composizione, L’antica arte di chi sa ascoltare, è una consapevolezza della meditazione, soprattutto quando dice: “si nasce e si muore nel respiro”. E si lega alla pratica che quotidianamente l’autore svolge. E poi Autoritratto con nido, dove il finale è darwiniano, e la seguente Lezioni di melodia serale che è una poesia del desiderare.

In La stanza delle foglie sospese c’è un andamento filosofico, dove pare che chi scrive arrivi a farsi cosa per non volere feticci; in Nuotare nelle acque-serpente la forma decisamente di foglia del testo ci induce ipnoticamente verso un imperativo che è dettato pure nello scritto: “fatti foglia”. Parsimonia è l’ultima composizione della prima sezione del libro, e il suo attacco è verità assoluta: “C’è un bosco che riposa nella carta”, ed è un inno alla natura che Fratus non vorrebbe manco nominare, perché lui sostiene che la natura non sa di essere natura, né di chiamarsi così come l’abbiamo definita noi umani.
La seconda sezione inizia con due citazioni in esergo. Una delle quali mi pare troppo banale per essere vera. Dice Mary Oliver: “Forse il mondo, senza di noi, è la vera poesia”. Forse sì, ma del mondo senza di noi a me non interessa un bel niente, perché altrimenti se il mondo senza di noi fosse la vera poesia, allora anche la natura esisterebbe nominata come natura senza di noi. E questo sappiamo dall’autore che non è così. Se una critica si può fare a questo libro è che si sono troppe citazioni, troppi exergum: ne ho contati 25…
Comunque la seconda sezione appunto è molto originale per i distici – li chiamo così – dei pre-titoli dei testi che sono molto azzeccati. Tipo: “dettato solenne”, “minuetto arcano”, “soffiato sabbioso” o “duetto atmosferico”. La prima composizione è intitolata La vita tagliata e ha un finale scientifico-realistico interessante: “[…] il pianeta non può essere salvato poiché fra le stelle la salvazione non è un’opzione. I mondi non nascono e non muoiono, la vita è una sontuosa illusione”. E si conclude col dire che “noi siamo il resto”, che si potrebbe interpretare come il rifiuto che avanza, nel senso che è di più e che viene avanti: una frase simbolo di impatto speculativo. Di questa sezione, oltre a Il rogo, segnalo anche Per gentile concessione della natura, dove nel verso “tu, qui, al mondo, già, irrimediabilmente” Fratus incide l’ineffabilità dell’esserci, che pare non si riesca a dire meglio di come lo dice il silenzio naturale.

A seguire incontriamo la prima prosa, Radico ergo sum, che è il manifesto politico – se così posso dire – del Fratus-pensiero dove si prova a spostare la natura fisica fuori dalla parola che la determina per farne simbolo, fuori dal linguaggio umano, relegando noi “lì, nel buio, coi nostri minuscoli occhi d’animale”. Ma perché, se la natura non si dà nome e andrebbe lasciata in pace, noi penetriamo boschi senza apparente necessità? La risposta di Fratus è la sua “vocazione al silenzio assoluto”, eppure la chiusa della prosa è una sorta di “quello che non” di montaliana memoria, una pace delle cose, scritta da un monaco zen.
Nella sezione “Musica per le foreste” sono esposti i semi-poesie, scritte in forma di seme. In uno si parla di intenzionalità, in uno di natura divina (pure se ciò che si divinizza adesso non avrebbe dovuto esser nominato in precedenza), in un altro si vorrebbe fare foreste dei deserti che pure sono pieni di vita e a me piacciono parecchio, in un altro ancora pare che tutto cadrà e quindi si parla di fine come di una evenienza sempre prossima. Ma tra i 20 semi-poesie i migliori sono Il seme del tuono, dove si legge “mentre le tempeste bussano alle porte della città, tu mi lavi i piedi in un catino di lacrime”, e I tuoi semi sparsi, dove si legge “Sono il ragno del tuo tempo […] la mia chiesa percepisce anche il più flebile dei venti”.
Nella sezione “Il giardino delle rose inglesi” si comincia con Elusione, una lettera curativa che si appiglia a una specie di tradizione della letteratura di conforto e si prosegue con L’impossibile, una sorta di dantesca ipotesi di addentrarsi nelle segrete cose.

Non si capisce invece che cosa c’entrino le poesie sulla bomba atomica in una sezione intitolata agli alberi intorno ad Auschwitz (che forse si voleva intendere come Birkenau, che ha appunto una foresta intorno), ma forse si è voluto unire due fatti storici macroscopici, antiumani per usare un termine celaniano. Eppure l’Olocausto, di fronte al resto, appare incommensurabile.
Nella sezione “Il comandamento delle parole”, il testo Adamo ed Eva è un geniale brevissimo trattato ironico sull’ambientalista di città che quando si trova in campagna ambisce al più presto ad un mezzo che lo riconduca presso luoghi urbani. Mentre è profondamente poetica la volpe de I paesi addormentati: “La volpe li sente i discorsi che sognano, in tutto questo silenzio gravido di attesa anche il più minuscolo rimprovero sa agitare la sua grossa coda piena di vento”.
Segnalo anche l’ottimo incipit della settima prosa, su come si distingue un bosco autentico da uno che non lo è: “Accade che certi alberi vengano clonati e riprodotti in altri ambienti. Come certe copie in marmo delle antiche opere bronzee greche e romane”. In questo scritto si parla anche di “contenere l’impatto del famelico turista universale”, cosa di cui cominciare senz’altro a prender coscienza in tempi di pandemia.
E infine arriviamo, dopo altre sezioni, al bizzarro e originale stelo conclusivo di Sottile, un unico testo in cui su ogni riga c’è una sola lettera e che diventa un’unica colonna di parole stampate a metà foglio.
Questo libro è un compendio di tutta l’opera di Fratus, di questo onore è vestito e di questa responsabilità porta i segni.

Nota finale
Nelle note conclusive, intitolate Una manciata di ciliegie, l’autore parla dei riferimenti del suo attraversamento letterario. E qui mi sono saltati agli occhi due temi a me molto cari.
Il primo riguarda un’errata periodizzazione della fama del poeta Giorgio Caproni. Qui l’autore sostiene che il riconoscimento del poeta livornese, nell’ambito dei “circoli poetici”, sia arrivato soltanto oggi, mentre venticinque anni fa nessuno lo considerava. A onor del vero Caproni fu portato alla ribalta nel 1952 da Pier Paolo Pasolini con un articolo sulla rivista “Paragone”, e quell’anno Caproni vinse pure il premio Viareggio per la sua raccolta Stanze della funicolare. La fama letteraria che lo avrebbe avvicinato al grande pubblico dei lettori Caproni la raggiunse poi negli anni Settanta del Novecento. Non è un caso che l’editore Garzanti nel 1983 arrivò a dedicargli “un elefante”, cioè a pubblicare tutte le sue poesie (un meridiano anticipato, potremmo definirlo), con in appendice i maggiori interventi critici scritti su di lui da nomi del calibro di De Robertis, Calvino, Citati, Bo, Agamben, Pampaloni, Beccaria, Raboni e Pasolini stesso.
Il secondo tema riguarda Sam Hamill che è citato da Fratus e mi tocca da vicino, in maniera profonda. Ero amico di Sam Hamill e ho scelto di pubblicarlo in Italia con il suo poema Pisan Canto (Canto Pisano, Edizioni ETS, 2007), dopo che nel 2003 l’ho portato nel nostro Paese per parlare a Milano, Bolzano, Firenze, Pisa, Livorno, Roma del movimento Poets Against the War. Fratus vive in una casa fatta in parte di legno e si è stupito quando gli ho raccontato che anche Hamill si era costruito da solo una casa di legno nel bosco vicino ad Omaha. Questa analogia edilizia del mio vecchio e caro amico poeta americano (purtroppo scomparso da qualche anno) con Fratus mi fa pensare che le vicende della poesia sono anche intrecci di persone e argomenti, e che chi scrive oggi deve (o dovrebbe) sapere che cosa è successo prima di lui in quel mondo, in quel campo, nella voce viva del fare poetico.