Mario Ferraguti, La voce delle case abbandonate. Piccolo alfabeto del silenzio. Ediciclo Editore, prima edizione 2016, pag. 96, € 9,50
Anche Lucignana sembrava abbandonata mentre procedevo su per la salita che porta a Sopra la penna, la libreria di Alba Donati, piccola e accoccolata contro il muro a secco che sostiene la strada, aperta verso la vallata. Mi sono arrivate voci, le ho seguite fino ad un cortile dove pochi anziani giocavano a carte. Salga su, la trova alla sua destra.
La voce delle case abbandonate era il libro più adatto, più giusto, da acquistare in quel guscio d’uovo di libreria, dopo una tisana bevuta al tavolino piccolo, guardando il verde di sotto e i fiori vicini.
Trovarsi davanti ad una casa abbandonata, spuntata all’improvviso dopo aver girato e rigirato per strade di pianura, e provare la curiosità di andare dentro: è cominciato di lì il percorso di Ferraguti, per ascoltare la voce delle case abbandonate, per ritrovare i segni di chi c’è vissuto, oggetti che parlano ancora.
Sono umanizzate queste case, di collina, di pianura, di montagna. Quando la loro gente se ne va, vivono un “periodo di tristezza in cui sembrano soltanto case vuote in attesa di un ritorno”. Poi cominciano a stare bene “con tutto quello che c’è intorno, e prendono i colori dell’erba, della pioggia, del vento, delle cortecce, dei sassi, dei rovi e della terra; quando sembrano ancora più leggere, anche se a mettere radici imparano dagli alberi”.
Hanno un alfabeto muto gli oggetti rimasti soli, imparano a comunicare “con quella loro voce che non hanno mai tirato fuori”. Ma quando entra qualcuno “si alza al massimo il volume del silenzio fino quasi a scoppiare…fino a distorcere il silenzio” e far sentire i ragni e le formiche che camminano, i tarli che rosicchiano, le lucertole che strisciano, i topi che passano sui mattoni. Poi gli oggetti ritornano a parlare con quel loro alfabeto, dopo che è passato lo stupore. Guardano come se “avessero trattenuto un po’ degli occhi, sguardi e riflessi, di chi dalle porte è passato e ripassato”. Dentro è racchiuso ciò che è fermo per sempre.
Si recuperano i colori, gli odori, il calore delle case abbandonate, che si lasciano invadere lentamente dal verde di fuori, fino a confondersi a scomparire magari in un bosco, fino a ritornare alla terra, scivolando piano piano.
C’è curiosità ma insieme timore e rispetto in colui che avanza, una forma di esitazione iniziale prima di intromettersi tra i segni del privato, quasi un bisogno di chiedere permesso. Ci sono stanze in cui si entra con timidezza, sono le camere “dove ci si spoglia, si fa l’amore, ci si addormenta, si nasce e si muore”. Talora, davanti ai vestiti rimasti lì, si sente ancora tutta la passione trascorsa.
E come comportarsi davanti a oggetti abbandonati, testimoni di abitudini, cultura e vita? Lasciarli lì o recuperarli? Qual è la sottile linea di demarcazione che distingue un esploratore da un ladro?
Ferraguti entra in punta di piedi, si avvicina a piccoli passi, ricostruisce leggende, vince le paure fino a sentirsi parte del tutto. Racconta con un linguaggio leggero, come di poesia.
Ne nasce uno straordinario paesaggio dove vince un silenzio che non è vuoto, in un legame sempre più stretto tra pietre e mattoni col verde che si impadronisce di tutto. Un paesaggio che potrebbe appartenere al sogno, invece è concreto, ancora carico di vita e insieme di nostalgia.