Sarà un voto contestato?
In attesa di avere il verdetto finale delle elezioni americane, i legali dei due candidati presidenti stanno affilando le armi delle norme per scongiurare la vittoria dell’altro, con qualsiasi mezzo.
I brogli sono vecchi quanto la democrazia. Anzi più radicata è la democrazia e maggiore appare la possibilità di condizionare, manipolare la selezione dei governanti. Un paradosso? Non del tutto. La controprova ce la offrono i sistemi totalitari, autoritari, teocratici. Dovunque cioè, non essendoci libertà politica ma fittizi consensi istituzionali, il controllo della volontà popolare è esercitato dall’alto. Nessun bisogno di imbrogliare dal basso. Capita così che proprio nella patria della democrazia repubblicana (nata quando in Europa c’era l’assolutismo monarchico) quasi a ogni elezione riesplodano le polemiche. E con esse l’angoscia di reazioni violente.
Del resto come dimenticare che questa nazione a metà dell’Ottocento ha conosciuto una feroce guerra civile? E che in forza della sua Costituzione è la più armata del mondo? Quattrocento e passa milioni di armi. Solo in ottobre ne sono state vendute il 65 per cento più dell’anno scorso. Gli americani ricominceranno a spararsi addosso? Non è detto. Ma la tensione è altissima. E nella previsione del peggio fanno ampio uso del diritto di possedere armi, anche armi da guerra.
Secondo emendamento costituzionale. Bene, anzi male.
Chiediamoci allora il perché di tanta tensione. Semplice: perché in passato ci sono stati momenti come questo. Momenti di contestazione dei risultati elettorali. Quattro volte per l’esattezza nei 232 anni dalla prima presidenza, quella di George Washington, il vincitore della guerra di indipendenza contro gli inglesi.
La prima volta fu nel 1876. La guerra civile era finita da 11 anni. Gli Stati confederati riammessi nell’Unione. Candidati alla presidenza il repubblicano Hayes e il democratico Samuel Tilden. Ebbene i democratici del sud cercarono di impedire il voto degli ex schiavi neri che al repubblicano Lincoln dovevano la loro emancipazione. A quei tempi i razzisti erano i democratici del sud. I Ku Klux Klan ne erano il braccio clandestino. Ma molti oggi non lo ricordano.
Hayes ottenne 185 voti elettorali. Tilden 184. Ricorso al Congresso. Nomina di una commissione. Decisione per Hayes nel 1877 solo dopo la promessa di quest’ultimo di terminare l’occupazione militare del sud.
Undici anni dopo altra contestazione fra l’uscente presidente, il democratico Cleveland, e il repubblicano Harrison. Quest’ultimo viene accusato di avere comprato alcuni collegi. C’è una lettera di suo pugno. Ma per risparmiare traumi Cleveland si ritira. Verrà rieletto quattro anni dopo.
La storia si ripete nel 1960. Da una parte il democratico John F. Kennedy e dall’altra il repubblicano Richard Nixon. Kennedy si aggiudica cinque Stati (Hawaii, Illinois, Missouri, New Jersey, New Mexico) con uno scarto inferiore all’1 per cento. Ancora più basso lo scarto in Texas e Chicago. I repubblicani dimostrano le frodi elettorali in suo favore. Soprattutto a opera della mafia italoamericana. Ma Nixon segue l’esempio di Cleveland. Si ritira per scongiurare disordini. Poi anche lui come Cleveland si ripresenterà e sarà eletto (1968).
Arriviamo infine al 2000. Il repubblicano Bush vince di misura in Florida. Il democratico Gore ricorre alla Corte Suprema di quello Stato. Riconteggio e conferma. Gore ne chiede un altro. Ma Bush si oppone. La Corte Suprema federale gli dà ragione. Basta così. Bush diventa presidente per 537 voti. Finiranno davanti alla Corte Suprema, ora a maggioranza repubblicana, anche i risultati della notte scorsa?
Mai dire mai.
[tratto da La Nazione – di Cesare De Carlo – cesaredecarlo@cs.com]