Marisa Cecchetti, Se mi porti con te, Giovane Holden Edizioni, Viareggio 2020, 40 pp.
Una copertina che sa di teatro: una maschera nuda, “ferita” da linee che spezzano il colore rosso pompeiano di un immaginario sipario, lacrima una sua trasfigurazione sospesa. È questa l’acrobazia grafica, bellissima e ricca di significati, che apre e racchiude Se mi porti con te, una silloge poetica di Marisa Cecchetti.
Sono 27 liriche che raccontano il pietrificarsi della vita sotto il gelo del Covid che ancora paralizza la nostra esistenza, il lento inesorabile debraille che corrode e corrompe il nostro habitat spirituale e mentale. Un bombardamento di meteore sulle nostre coscienze.
Cecchetti riesce, con i suoi versi, a comunicare, attraverso la mutazione dei suoni (un concerto silenzioso, ovattato), il trasformarsi delle distanze in metri, in agonia di passi. La solitudine che tiene il campo è resa ancora più profonda e assurda dalla prigione degli schermi.
In ogni verso, in ogni strofa, è avvertibile un invito alla resistenza attraverso l’attaccamento alla bellezza del vivere. Il denominatore comune della raccolta è legato alla riscoperta del valore dei gesti e della cura, all’importanza della dignità dei sentimenti, del pianto e del sorriso.
Marisa è consapevole che si deve cercare la rivelazione nel quotidiano, che è necessario trovare il dato prezioso, un oggetto che raccolga il respiro della vita, il manifestarsi improvviso dello splendore dell’esistere perché questo è parte fondante della funzione salvifica della poesia.
C’è qualcosa in questo “diario di guerra e di prigionia” che chiamerei, per usare un ossimoro, fragile indistruttibilità esistenziale. È un sentimento antico, un frammento, una eco degli antichi e immarcescibili canti che i poeti hanno conservato e lasciato in eredità a tutti noi per non morire, per soccombere alle bufere dell’avversa fortuna.