Muore Michael Apted
Ha mancato per una manciata di giorni – poco più di un mese per l’esattezza – l’appuntamento con i suoi 80 anni. Si apprende oggi la notizia della scomparsa di Michael Apted, morto a Los Angeles dopo una lunga e onorata carriera da cineasta, premiato dal consenso del pubblico e dalla stima dei colleghi nonostante un palmarès in fondo scarno, salvo l’exploit delle sette nomination all’Oscar nel 1980 con “La ragazza di Nashville”. Ma alla fine, in quel caso, a trionfare fu solo la sua protagonista, Sissy Spacek, e allo stesso modo ricordiamo uno dei suoi migliori film – “Gorilla nella nebbia”, 1988 – soprattutto per l’intensa interpretazione di Sigourney Weaver.
Il fatto è che l’inglese Michael Apted, nato ad Aylesbury nel Buckinghamshire il 10 febbraio 1941 sotto le bombe dell’offensiva nazista contro l’Inghilterra, è stato soprattutto un raffinato artigiano, un attento direttore d’attori, un meticoloso costruttore di congegni narrativi capaci di appassionare gli spettatori. Del resto lo confessava lui stesso: “Non mi ha mai appassionato dirigere film che nessuno ha voglia di vedere”. Alto, elegante, segaligno (ma da giovane ostentava una bella zazzera bionda e un fisico atletico che adattò in fretta al gusto degli americani mimetizzandosi sotto cappellini da giocatore di baseball), è ricordato oggi da tutti come un gran signore e un sobrio cerimoniere. Sia alla testa dell’associazione dei registi americani (dal 2003 al 2009) che alla commissione dell’Academy per l’Oscar del documentario. È in questa doppia vocazione che va ricercato il suo registro più intimo come autore. Da una parte si adattava volentieri a progetti ambiziosi adeguati al cinema degli Studios; dall’altra perseguiva un sogno durato tutta la vita, ovvero raccontare l’esistenza ordinaria di un gruppo di persone normali nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dalla maturità alla vecchiaia: per questo ha seguito, dal 1964 allo scorso anno, il progetto televisivo “Up”, filmando un gruppo di 14 bambini con il proposito di tornare a seguirli nella loro crescita ogni sette anni. L’idea era stata del regista televisivo Paul Almond e a quell’epoca il giovane Apted era solo ai primi passi della sua carriera in tv. Ma in seguito si appassionò totalmente al progetto che definiva “l’unica cosa veramente importante della mia carriera” e mantenne la parola fino all’ultimo episodio distribuito nel 2019. “E’ importante – diceva – capire come cambia una società attraverso la vita delle persone normali e io credo di dare un piccolo contributo con questa storia che definirei ‘di famiglia’, tanto ormai sono intimo con tutti i miei protagonisti. Restiamo in contatto regolarmente e poi, ogni sette anni, io torno con la mia cinepresa a dar loro voce”.
Nel cinema Michael Apted debutta nel 1972 con un thriller di buona fattura, “Triplo eco”, interpretato da due star come Glenda Jackson e Oliver Reed. Ha alle spalle dieci anni di gavetta alla Granada Television, una buonissima conoscenza della tecnica e il successo ottenuto in patria attira l’attenzione degli studios americani. Come molti compatrioti si inserirà in fretta nel sistema delle majors, ma deve aspettare sette anni per farsi largo grazie all’ambizioso “Il segreto di Agatha Christie” dedicato a un episodio enigmatico nella vita della regina del giallo con una splendida Vanessa Redgrave nel ruolo principale e Dustin Hoffmann nella parte del giornalista che la seguirà durante tre giorni di misteriosa amnesia della donna.
L’anno dopo, passato l’Oceano, trionfa con “La ragazza di Nashville” sulla cantautrice country Loretta Lynn. E’ il soggetto ideale per conquistare il pubblico dell’America profonda e nel 1981 si ripete, grazie a John Belushi, con la commedia demenziale “Chiamami aquila” scritta da Lawrence Kasdan. Seguiranno titoli come “Gorky Park”, “Cuore di tuono”, “Occhi nelle tenebre” e perfino un titolo della saga di 007: “Il mondo non basta” con Pierce Brosnan. L’impeccabile spy story “Enigma”, scritto da Tom Stoppard e tratto dal romanzo di Robert Harris nel 2001 e il dramma storico “Amazing Grace” (2006) sul gentiluomo inglese William Wilberforce che a inizio ‘800 fece abolire la schiavitù in Gran Bretagna, restano i migliori titoli nell’ultima parte della sua carriera. Ma continuò imperterrito a dirigere come nel sequel de “Le cronache di Narnia” del 2010 (“Il viaggio del veliero”) o “Codice Unlocked” con Noomi Rapace e Orlando Bloom, la sua ultima regia nel 2017. Un tratto rimane preciso nelle sue scelte: da un lato utilizzare i generi più popolari per piacere al pubblico americano, dall’altro ricorrere a storie, scrittori, attori della madre patria per portare un tocco di classe tipicamente europeo ai suoi lavori. Anche per questo piaceva agli Studios, perché le sue regie avevano sempre un carattere inconsueto che affascinava e si stagliava sulla produzione da blockbuster.
Il suo capolavoro rimane “Gorilla nella nebbia” del 1988 in cui ricostruiva il misterioso omicidio dell’antropologa Dian Fossey, mandata in Congo Belga dal “National Geographic” per studiare il comportamento dei gorilla di montagna, specie in via d’estinzione. La ricercatrice riuscì ad assimilarsi perfettamente nella comunità delle scimmie, facendosi adottare dai quadrumani, ma la sua passione da esploratrice si scontrò presto con gli interessi dei bracconieri e le protezioni governative, fino a rimanere barbaramente assassinata da mani rimaste ignote ancor oggi. La cura della messa in scena ricostruita nelle foreste di Grenada, l’interpretazione di Sigourney Weaver e l’emozione di una vicenda mai prima rivelata dai mass media, suscitarono una reazione in tutto il mondo e il film conquistò ben 5 nomination all’Oscar.
[tratto da ANSA – di Giorgio Gosetti]