21 Novembre 2024
Words

Draghi: fatti non parole

Quando parlerà Draghi? si chiedono sgomenti i cronisti di Palazzo, in attesa che il premier pronunci il suo primo discorso alla nazione. “Mai”, è la risposta corretta, “sempre” è quella giusta. Il presidente del consiglio ha parlato anche ieri, solo che non ha aperto bocca. Ha semplicemente licenziato Arcuri.
Nei giorni scorsi, sempre senza rilasciare mezza dichiarazione, aveva cambiato il capo della Protezione civile, dato sempre più poteri a Gabbrielli, incontrato per la prima volta gli altri leader europei mettendo sotto accusa le case farmaceutiche che non rispettano i patti. Nella formazione del governo, aveva scelto direttamente i ministri che ai suoi occhi contano, senza chiedere ai partiti.

A due settimane dall’esordio del suo governo, ecco quindi il famoso stile Draghi di cui tanto si è favoleggiato. Quello da banchiere centrale, gente che tradizionalmente parla solo con la moglie, e forse poco anche con quella, gente abituata a misurare parole ed effetti speciali. Uno stile che comunica con il silenzio, lavora di sottrazione, parla per atti ufficiali, alla tedesca. Lo sapevamo, l’avevamo messo nel conto, forse lo volevamo anche.
Dopo anni di «roccocasalinate», ansiogene dirette tv, gigioneggianti passeggiate per via del Corso, proclami per annunciare un annuncio, like sul niente, sentivamo il bisogno di uno stile più austero. Chissà, forse sarà lo spirito del momento ma l’impressione è che gli italiani avessero, abbiano, poca voglia di scherzare e di gente che va in tv a fare i giochi di prestigio con le parole non ne vogliano proprio sapere. La scelta di Draghi appare quindi naturale da una parte, perché corrisponde alla sua natura riservata, ma anche studiata, perché consapevole, o per lo meno fiduciosa, di corrispondere a ciò di cui il Paese chiede. Una sfida per noi e per lui.
Per noi è una provocazione, che nell’epoca dell’effimera comunicazione social dovremo però meritarci. La sindrome del pifferaio magico era in fondo un po’ comoda per tutti, al pifferaio ma anche ai topi, che si illudevano di aver trovato una soluzione facile ai loro problemi. Sarà una sfida anche per lui, o per lo meno per chi gli sta attorno e condivide con lui la responsabilità delle scelte più difficili (citofonare, i partiti).
Per adesso Draghi non deve inseguire popolarità o consenso, ma alla lunga la tattica della Sfinge è scelta ardua. Un suo predecessore, Mario Monti, ebbe un debutto simile ma non resse all’eremitaggio comunicativo, prese in braccio un cagnolino in tv e tutto finì. Forse il precedente ravvicinato darà la forza a Draghi di non commettere l’eventuale nuovo errore.

[tratto da La Nazione – di Pierfrancesco De Robertis]