Cees Nooteboom, Addio, (trad. Fulvio Ferrari), Iperborea edizioni, Milano 2020, 96 pp., 11 euro
“La maggior parte dei morti tace. Per i poeti non è così. I poeti continuano a parlare” scrive Cees Nooteboom nel suo romanticissimo “Tumbas”, cercando – sulle tombe dei suoi scrittori – la loro essenza, che “resta invisibile”, perché “il lettore vede sulla tomba del suo poeta quel che non vede nessun altro”. Ci si potrebbe fermare qui, in questo viaggio incerto per luoghi oscuri e inaspettati, che caratterizza il mondo letterario di Nooteboom.
Ma si va oltre, con Addio, in uno spazio senza tempo, dove è chiara solo la necessità del viaggio, perdersi comunque da qualche parte, dopo aver percorso tante strade “sempre in cerca di qualcosa /che doveva trovarsi più lontano”. È un saluto al mondo e alle cose che alla fine contano, l’amore, l’amicizia, in una sorta di feticistico rituale per non morire (“Cosa volevi/conservare? Il suono di una voce,/il ricordo di una spalla, di una/mano, il colore dei suoi occhi, l’odore/di un corpo, per sempre//svanito?”).
Cosa conservare della vita, mentre si dice “addio” e non si smette di amarla? Le parole di Nooteboom hanno un particolarissimo spessore, leggere e innamorate, volano sopra le cose, scoprono immagini lontane e vicinissime, ci rendono complici di un gioco misterioso e infinito, qualcosa che, dopo averlo intravisto, “svaniva come un miraggio/o appariva come poesia”.