23 Dicembre 2024
Culture Club

Che cos’è l’essere?

«Questo libro è una guida alla lettura di Heidegger» scrive Umberto Galimberti nel suo Heidegger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente (Feltrinelli, 2020). Al pari delle collane Invito al pensiero di (Mursia) e Introduzioni a (Laterza), anche questo libro segue pedissequamente l’itinerario speculativo di un autore insieme a quello biografico cercando di fornire in sostanza  le linee guida per una corretta presentazione del pensatore – inserito una volta nel suo tempo, nel corpo delle opere che ha prodotto e nel pensiero critico che si è prodotto su di lui. Quello che Umberto Galimberti ci restituisce (in un libro che è davvero molto importante non solo per gli studiosi di Heidegger) è una specie di trattato Sulla natura simile a quelli, introvabili, di molti dei Presocratici. Infatti, al pari dei trattati attribuiti a primi filosofi (o filosofi del «primo inizio») Umberto Galimberti traccia un cerchio, descrive un circolo, tratteggia una circonferenza.
Questo Heidegger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente è la storia di un circolo, di una sfera, di un tondo. Infatti, muovendo da un «primo inizio», Galimberti va alla ricerca di un «nuovo inizio» che, poi, non è altro – come due punti in una circonferenza – né il primo e nemmeno l’ultimo, né l’inizio né la fine ma semmai un «nuovo inizio» che cerca, in qualche modo, di tornare al «primo», che considera il «primo», che tiene conto «del primo inizio». E siccome il «primo inizio» risiede nella filosofia Greca (che ha prodotto i trattati – prime opere scritte di filosofia – intitolati successivamente Intorno alla natura) si ha che anche il «nuovo inizio» verterà Sulla natura intesa però nel senso greco. Ma che cos’è questa natura? È ente ed essere – che nel pensiero dell’«inizio» sono congiunti.

Il libro di Galimberti si produce dall’unione a una nuova unione, passando per la dissonanza, per la disarmonia, per la disunione.
Ma cos’è questa disunione? È una contraddizione. Anche se Heidegger non usa questo termine, la «contraddizione» è quella nella quale noi stiamo vivendo. In attesa di una nuova «unione» (di un nuovo «inizio») tra pensiero ed essere, uomo e natura, ente ed essere, mente e cose. Tutto il libro di Umberto Galimberti a questo punto: è la disamina di questa «contraddizione».
«L’intero pensiero occidentale» (per come lo conosciamo) è la storia di questa «contraddizione», di questa frattura, di questa scissione. E «tutto il pensiero occidentale», per come lo conosciamo, è quello «inaugurato» dalla metafisica. Platone ha inaugurato questa «tradizione». «Nella storia della metafisica l’essere si è annunciato di volta in volta, sottraendosi: nel lógos di Eraclito (535-425 a.C.), nella mõira di Parmenide (515-450 a. C.), nell’ ideá  di Platone, nell’ enérgeia di Aristotele, nell’ ens creatum dei filosofi medievali, nell’essere oggettivo di Kant, nel concetto assoluto di Hegel, nella volontà di potenza di Nietzsche. In queste figure l’essere si dà (es gibt) sottraendosi, sicché la storia della metafisica occidentale è essenziale alla storia dell’essere, come epoca dell’annuncio della sua assenza».
E ancora: «Dopo questa ulteriore chiarificazione terminologica, è possibile entrare nel vivo della questione sollevata in Identità e differenza, dove si discute del carattere onto-teo-logico della metafisica occidentale, che dal supremo sorgere si è sempre promossa come ricerca di una causa, di un fondamento, di un ente in grado di sottrarre la totalità degli enti alla possibile rapina del nulla.

Quando la storia della filosofia parla di Arché, di Tó Aghatón , di Enérgeia, di Causa prima, di Causa sui, di Ratio, chiama con gli stessi nomi quello stesso Ente pensato a fondamento della totalità degli enti. L’anticipazione logica della domanda decide del contenuto ontico della risposta. In questo modo l’essere rimane l’impensato da pensare. Impensato perché la metafisica che si è sviluppata in Occidente, con la sua impostazione onto-teo-logica, si è raccolta intorno all’ente obliando l’essere; da pensare perché, nell’oblio dell’essere, non è possibile pensare ente alcuno». Dal «primo inizio» alla «storia del pensiero occidentale» alla «metafisica» al problema «dell’essere», Umberto Galimberti «abita» quella «contraddizione» per la quale le stesse cose «ora sono e ora non sono», sono e non sono, dall’essere vanno a finire «nel nulla». Come lo stesso uomo, del resto.
Per Martin Heidegger ciò che «salva» gli enti dal «nulla» – e siamo ai giorni nostri – è la «tecnica moderna» (che è «La realizzazione compiuta dell’intenzione segreta della metafisica») ma questa «sicurezza» e «stabilità» richiede un «prezzo» da pagare: per «salvare» l’uomo dalla morte si deve usare, infatti, il «pensiero calcolante» e dimenticare che esiste anche il «pensiero meditante» (che altrove Umberto Galimberti definisce come «pensiero che pensa» o «pensiero pensante»). Ma se perdi il «pensiero pensante» – stante l’identità di essere e pensiero postulata da Parmenide di Elea – hai perso anche «l’essere». L’uomo – con la tecnica – ha trovato solo l’uomo e ha salvato solo l’uomo ma nell’«oblio dell’essere» ha scordato la sua natura, il suo «primo inizio», che cosa veramente c’era da «salvare». La phýsis del «primo inizio» greco – punto qualunque della circonferenza che precede e segue un altro punto qualunque che non viene né prima né dopo di esso – è un «orizzonte immutabile» nel quale sono presenti, animali déi, uomini, cose, oggetti, situazioni, stati d’animo. Heidegger «rende» questa «natura» greca come «essere che si dà» all’uomo facendolo «apparire» – non come essere che è; come «orizzonte immutabile» e non come sostanza; come qualcosa che essa stessa «si dà» agli «enti» – portandoli dal «nascondimento» allo «svelamento» – e non come qualcosa che «caratterizza» in maniera «inoppugnabile» qualcosa. Ecco che una delle due forme di pensiero che abbiamo investigato, il «pensiero calcolante», si occupa solo degli enti e non di quella cosa che «si dà» per esso – per la metafisica, per la tecnica, per il nichilismo. L’essere, a questo punto, equivale a «niente» e l’«ente» (uomo, animale, umore, stato d’animo) è quella cosa che si deve «salvare» al di là del suo «essere» che non esiste affatto. Enti senza essere. Cose che sono (una sedia è) e che nello stesso tempo «non sono»: o perlomeno non posseggono la «proprietà» dell’essere. Sono ma non sono. Sono qualcosa eppure non sono niente. Ma che cosa sono? E perché non sono niente? E che cos’è l’essere? Umberto Galimberti dice a questo proposito: «Il nichilismo che caratterizza il pensiero occidentale non annulla l’essere, ma considera l’essere come un nulla perché considera l’ente come il tutto».

Dunque siamo di fronte – con la metafisica Occidentale, la tecnica moderna e il nichilismo – alla «considerazione» dell’essere come un nulla: in sostanza questa sedia è ma questo suo essere è «nulla»; conta solo la sedia in quanto sedia. Che poi sia o non sia «qualcosa» è irrilevante!
Questa considerazione è chiamata da Heidegger «ontica»: è quella tipica del «pensiero calcolante» (per il quale l’ente è tutto e «l’essere niente») mentre a essa si oppone quella del – dimenticato – «pensiero meditante» (il pensiero tipico del «nuovo inizio») che è una «considerazione ontologica»: essa ricerca infatti «il senso dell’essere» attraverso il «pensiero che pensa» per realizzare quella nuova «unione» (auspicata da Martin Heidegger) tra mente e natura; quel «nuovo inizio» nel quale l’essere è pur sempre qualcosa, non dimenticando l’esistenza dell’ente.
Per quale motivo si dovrebbe «recuperare» l’essere? Heidegger afferma che questo «compito» è fondamentale perché nell’«oblio dell’essere» trionfano la metafisica, la tecnica moderna e il nichilismo. Ma questa «considerazione» non è affatto convincente. In effetti Martin Heidegger non esplicita «altri» motivi per i quali si dovrebbe «riunire» l’essere con l’ente che non siano i «soliti» motivi in «negativo» caratterizzanti di una società nichilista, che ha annullato tutti i valori, che è incistata nel tempo della «notte del mondo», nella quale la «tecnica» (che «non ha scopi» e che quindi tende «solo al suo potenziamento») «non promuove un senso» – insomma vale solo che la tecnica, in qualche modo «funziona». In questo senso del tutto «negativo» prospettare un «pensiero che pensa» – alternativo al pensiero come «ragione», «logica», «calcolo», «legge di natura», «equazione matematica» – vuole insomma dire restituire un significato alla vita. Ma ciò non toglie che non abbiamo in Heidegger (letto da Umberto Galimberti) un «significato positivo» del recupero del «senso dell’essere» e quindi nemmeno una risposta alla domanda «che cos’è l’essere?».

Ma andiamo con ordine.
Per recuperare il «senso dell’essere» occorre «un passo indietro»: «dalla contraddizione» al «primo inizio» per ottenere un «nuovo inizio» che a questo punto è del tutto indistinguibile dal «primo inizio». Si tratta, insomma, non di costruire una nuova strada (di ricerca) ma di «liberare l’antica». A questo punto nella linea «primo inizio»-«contraddizione»-«nuovo inizio» si ha un recupero del «rapporto aurorale» dell’ente con l’essere ed è qui che il «linguaggio» non basta. ma contraddittoriamente solo il «linguaggio» si rivela essere il «luogo» di questo «nuovo inizio». Quale linguaggio? Quello poetico, ad esempio.
Heidegger realizza, operando in questo modo, un «ritorno», che è anche una «partenza». Al posto del «pensiero calcolante» abbiamo ora il «pensiero che pensa» ovvero il «pensiero meditante» ovvero il «pensiero poetico» che può dire, nel silenzio e nel «non volere», il significato della vita. La difficoltà è la mancanza di un linguaggio per dire tutto questo e, nello stesso tempo, questa nuova «filosofia del mattino» che si preannuncia e si prospetta nasce come «contrapposizione dialettica» alla «filosofia della notte» ma non pare avere una natura sua propria, un suo senso, un senso del senso, un suo significato che la imponga all’attenzione degli uomini – o, se vi piace, degli enti.
«Alla dimenticanza dell’essere (Seinsvergesenheit) è intrinsecamente connessa la deficienza del linguaggio»: «A cui mancano le parole per esprimere ciò che ancora non è stato pensato». È una impasse! Ecco che l’«essere» – che si sta cercando – «viene in luce» proprio «nel linguaggio»: è nelle parole, nei sintagmi, nei morfemi che si realizza quella «nuova unione» tra mente e natura, uomo e realtà, ente ed essere, pensiero e azione che era stata «spezzata» da Platone.

Questo «nuovo linguaggio» (che scaturisce dalla parola dei poeti) deve «dire» l’«originario» e pre-metafisico «rapporto» che nei poemi Sulla natura i Presocratici (e il presocratico Umberto Galimberti e il presocratico Martin Heidegger) hanno «detto» per la prima volta nella storia dell’Occidente ora in forma aforistica (Eraclito di Efeso), ora in forma poetica (Parmenide di Elea ed Empedocle di Agrigento), ora in forma oracolare, orfica, misterica intendendo «testimoniare» il senso tutto greco di una «reciproca appartenenza» ora al cielo ora alla terra. Che poi tutto questo vuol dire: una riflessione sulla «natura» dalla quale l’uomo (l’ente) non è escluso. Un altro cerchio, in qualche modo!

Seguendo ancora Martin Heidegger si ha che l’essere rintracciato attraverso la parola di Friedrich Hölderlin, Georg Trakle, Rainer Maria Rilke, Stefan George è quel «mondo» (l’Evento) «in cui qualcosa di assolutamente nuovo viene a essere». Questa «apertura» conduce nella «contrada» dell’Aperto (e dell’Abisso) nella quale tutti gli enti sono «in relazione» tra loro e che fa intervenire «I mortali, i divini, la terra e il cielo». Per «saltare» dall’«altro lato» dell’Abisso occorre «riappropriarsi» del «primo inizio»: rendere la «notte» un «mattino»; passare dal «calcolo» alla «poesia» … Dal «fondamento» allo «s-fondamento»: dall’ente attraverso la contraddizione all’essere che era stato «pensato» insieme (o «accanto») all’essere nel «pensiero aurorale»: verso un «nuovo inizio» che ri-pensa quella «unità» originaria esattamente come fa Eraclito di Efeso.
Sempre tengo presente però che l’essere non coincide con il linguaggio ma «si dà» (in maniera privilegiata?) nel «linguaggio». Che cos’è l’essere dunque? E che cos’è questa «critica» che Umberto Galimberti mette in bocca a Martin Heidegger? Critica dell’essere? Critica del mondo greco? Critica dell’ente senza essere?

Il «salto» ha necessità di possedere un suo proprio tempo; che è «il tempo del pensare»? Ma la nostra epoca tecnica, fatta di microelettronica, non possiede affatto «il tempo del pensare»? Partendo dalla nostra epoca non è possibile reperire un senso senza per forza dover discendere al «primo inizio»?

 

Invece di «Campi del sapere» (la collana della Feltrinelli nella quale è uscito questo libro) il testo di Umberto Galimberti potrebbe inaugurare la collana delle «Guide» della stessa Casa Editrice Milanese, perché il filosofo di Monza «introduce» la propria «critica» al filosofo di Meβkirch non prendendo una pozione netta ma illustrando alcuni passaggi decisivi che tendono a inserirsi in una più generale «critica del presente» (visto come «luogo» del dominio della tecnica e del trionfo del nichilismo).
Il «nostro tempo», in definitiva, corre un pericolo: la «Perdita di senso, a cui ogni cosa va soggetta quando la sua essenza non rinvia più all’essere ma al progetto che, calcolandola, l’ha posta in essere». Di fronte a questo «pericolo» Umberto Galimberti si sente di dover tracciare una «Guida» alla lettura di Martin Heidegger (in cui i «segni» di tutto ciò erano già in atto) nella quale egli «critica» sia il nostro tempo sia la filosofia di Martin Heidegger – nel senso che la spiega e la illustra «mostrandone» gli esiti e i «nessi problematici» – al fine di pervenire a una possibile «soluzione» o «risposta» rispetto al «problema del pericolo» e a quello che concretamente si può fare contro di esso oggi.

La «critica» in questo senso è più che mai rivolta verso «le conseguenze possibili» di tale dominio incontrastato del nichilismo e della tecnica moderna.
E la salvezza? «Il silenzio, la parola poetica, il non volere si profilano così come possibilità alternative al calcolo, all’enunciato, alla volontà di potenza con cui l’Occidente, nelle sue espressioni tecniche, annuncia sé stesso».
E in quale atteggiamento ci dobbiamo porre per reperire questa «soluzione»? «Lasceremo entrare gli oggetti della tecnica nella nostra vita quotidiana e nello stesso tempo li lasciamo fuori: li lasciamo riposare in sé come cose, che non sono nulla di assoluto, che, anzi, esse stesse sono ordinate a qualcosa di più alto». In finale è Eraclito di Efeso!

Gianfranco Cordì

Gianfranco Cordì (Locri, 1970), ha scritto dodici libri. E' dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista pubblicista. Dirige la collana di testi filosofici "Erremme" per la casa Editrice Disoblio Edizioni. Dirige le tavole rotonde di filosofia del Centro Internazionale Scrittori della Calabria.